Tutto ciò che desideriamo davvero è che ad altri importi di noi.

La verità è che a nessuno importa altro che di se stesso.

   Neppure al tuo medico importa di te. Dopo avere finto di occuparsi della tua salute, non appena sei fuori dal suo ambulatorio si è già dimenticato chi sei e che cosa ti ha diagnosticato. Se tu potessi tornare dopo qualche minuto travestito e proponessi le identiche problematiche che hai esposto quando ci sei entrato nei panni di te stesso, probabilmente il “tuo” medico si limiterebbe a pensare tra sé: curioso, le stesse problematiche di quello prima. Ma è assai improbabile che capirebbe che quello che avrebbe davanti ora è la stessa persona che aveva preso in esame poco prima.

Perché al medico non importa niente di te, ma solo di se stesso. È soltanto uno che esercita una certa professione. Tutto qui.

  Il mio vecchio medico, a proposito del dilemma se svelare o meno a nostro padre la gravità del suo male, mi disse che nessuno desidera veramente sentirsi dire che morirà, figuriamoci quelli sul punto di compiere il passo. Una cosa è saperlo, altro è sentirselo dire. Disse che un suo certo collega oncologo, dopo aver passato buona parte della propria carriera a sentenziare sul periodo di sopravvivenza dei suoi pazienti, preannunciando due mesi di vita a questo, due anni a quello, quando fu il suo turno e gli fu diagnosticato uno dei tumori che aveva portato a morte numerosi suoi pazienti, raccontava a tutti i colleghi che lui invece l’avrebbe fatta franca.

Era invece morto come tutti gli altri, e nei tempi previsti.

Deve essere la fresca principale ragione per cui quando accediamo ad un ambito medico veniamo definiti pazienti: paziente è colui che deve sopportare la finta superiorità di chi è medico.

 Ognuno ama sempre e comunque credere di se stesso di essere l’unico insostituibile e necessario. Persino chi soffre di distimia, in verità non soffre di poca autostima tout court, ma solo della provvisoria scarsa convinzione di credersi il migliore: gli si diano due opportunità di rilievo per risultare vincente in qualche stupida cosa, e si trasformerà prontamente in un presuntuoso. Immaginerà presto di essere il meglio.

  Nessuno pensa quindi che il mondo, avendo ampiamente fatto a meno di te sino al momento in cui sei fortunosamente approdato alla vita, potrà con la stessa disinvoltura proseguire una volta che tu ne sarai scomparso.

È un meccanismo naturale, e per averne riprova è sufficiente osservare il comportamento di un adolescente, e confrontarlo con quello di un ottantenne. La prima età è contraddistinta più che mai dalla sensazione pervasiva di essere irresistibilmente i depositari di ogni bene e di ogni potenza, la quale potenza si intende ovviamente inesauribile. Con l’età poi la percezione muterà parecchio, e tra chi giunge a metà circa dell’esistenza si potranno facilmente distinguere almeno due categorie principali: coloro che vivono il lutto prematuro della propria estinzione riscontrabile nei progressivi peggioramenti del proprio meccanismo biologico, e coloro che invece hanno compreso che, dato che queste sono le regole del gioco, tanto vale condurlo nel migliore dei modi.

Ciò non toglie che, per tutti, sempre e comunque, resti in vigore la convinzione profonda di essere il meglio.

  Non ti importa così se quello che tu credi un tuo amico non è in forma, poiché ciò che ti importa è che ad esserlo veramente, o anche solo sufficientemente, sia tu. Poiché la disfunzione che affligge tutti è l’ipocrisia, nessuno dice a un amico: guarda che fai schifo, stai male, sei brutto, sei isolato, sei sbagliato, sei ignorante, sei un cretino, uno sfigato (qui sfigato, che spesso è confuso con altro, significando ciò che davvero vuol dire: privo di chances con l’altro sesso). Ti limiterai a pensarlo, o semmai a confessarlo alla tua fidanzata o a tua sorella, se è troppo penoso tenerlo per te, o perché dirtelo, o dirlo a qualcuno, ti aiuterà a rafforzare in te l’idea che tu invece sia migliore. Difficilmente gli dirai la verità, perché dirgliela vorrebbe dire già impegnarti in qualche misura per aiutarlo ad uscire dal suo stato di sofferenza, quale che sia. Dovrai perdere tempo prezioso. Tu invece non hai né vuoi avere tempo che per te stesso. Ma vuoi lo stesso raccontarti di avere degli amici, giusto per mantenere viva l’idea di un te stesso altruista.

  Il tuo vicino si crede migliore di te, specie quando ti invidia qualcosa. Per compensare allora è costretto a ritenersi migliore di te, e se appena può, a criticarti. Non perderà l’occasione per farti notare in modo sgraziato che tu saresti colpevole di qualche mancanza ai danni del condominio, anche quando non è affatto vero, dimenticando bellamente quelle commesse da lui per primo. Questo lo aiuterà a sentirsi meno schifoso di quello che in verità è, soprattutto perché, anziché riconoscerti un merito, si limita a invidiarti.

   Il tuo collega, qualunque sia il campo in cui ti trovi ad operare, penserà di te che sei solo più fortunato, solo più paraculato, solo più ricco, solo anche la piccola, la più stupida cosa a te favorevole rispetto a quella invece toccata a lui. Questo lo aiuterà a fargli credere di essere in verità il migliore tra voi due e che ogni tuo riconoscimento avrebbe dovuto essere dato a lui.

La vita sembra sempre e comunque per chiunque una sorta di destinazione d’uso. C’è chi sembra venuto al mondo per sprecarla, (la maggioranza di noi), e chi (ben pochi) per farne un utilizzo congruo alla sua grandezza.

  Benché tu non possa accettarlo, neppure al tuo gatto a ben vedere importa davvero di te. Ti arrampicherai su interpretazioni simboliche ed esoteriche pur di non accettare che hai finito per accogliere nella tua vita e mantenere un impostore. Al gatto di te importa solo che sia tu a procurargli il cibo che gli permetta di continuare a farsi i fatti suoi, dal momento che nostri idiotissimi antenati hanno pensato bene di addomesticare animali feroci come lui, solo per ridurli a pessima compagnia per chi è tanto incapace di scambiare contatti con i propri simili da doversi illudere di trovare comprensione in un felino. O, in casi disperati, persino in più di uno. Persino in dieci. O in quaranta.

Così tu credi di controllare la sua natura di insolente, mentre è lui che approfitta della tua di babbeo, schiavizzandoti.

Deve essere per questa ragione che quando si dice che animale e “padrone” si assomiglino, pare anche evidente che ciò sia vero solo per il sodalizio uomo-cane, mentre non c’è gatto che assomigli al “padrone”.

  Naturalmente so ciò che dico. La mia gatta, una delle persone più arroganti e piene di sé che io abbia conosciuto, ad esempio, era anche un’autentica malvivente: caduta per disgrazia nella mia vita, seminava terrore e dettava legge in tutto il circondario, con mio grande rincrescimento. Invano ho tentato di ricondurla ad una condizione di essere socialmente accettabile, e quando una notte, senza preavviso, ha lasciato questa vita, si è persino concessa il lusso di addolorarmi della sua dipartita.

   Ma la natura degli animali, così come la tua, non cambia, sebbene a noi sfugga l’evidenza più brutale. Come nel caso del domatore di leoni, che dopo tanto illudersi di saper ridurre le fiere a simpatici lavoratori dello spettacolo disposti a salire e scendere da sgabelli e attraversare cerchi infuocati, ad un certo punto si è visto azzannare in pochi istanti, prima da uno e poi dagli altri tre, e arrivederci. Chissà da quanto tempo i suoi presunti sottomessi aspettavano quel momento, e l’unico ad escludere che prima o poi sarebbe arrivato era proprio il domatore, il cui titolo è già di per sé un programma. Avendo addosso gli animali inferociti, deve aver persino pensato che quel gioco dei suoi giganteschi gatti ammaestrati sarebbe finito subito e lui sarebbe presto tornato a far schioccare la frusta davanti al loro grosso naso. Almeno fino ad un attimo prima che gli venisse spappolata la giugulare.

  La natura, nostra o altrui, non cambia. E se tu dovessi un giorno incontrare il famoso alieno, il quale dovesse chiederti qual è il vero problema di noi umani, proprio nello spiegargli che il nostro problema è quello che ogni singolo imbecille esemplare di uomo crede di essere migliore di chi gli sta accanto, molto probabilmente penseresti nello stesso istante che quel nanerottolo grigio dalla testa sproporzionata e gli occhi obliqui tutto sommato non ha molte ragioni per sentirsi migliore di te. Penseresti: anche se hai dovuto viaggiare non so quanti cazzo di anni luce per venire qui a chiedermi quale è il mio problema, io non posso evitare di sentirmi comunque superiore.

 E allora lui, dotato delle (per te impensabili) capacità di leggerti il pensiero, avrebbe due sole possibilità: la prima, quella di trasportarti in qualche recondito luogo dell’universo dove rigenerarti a livello cellulare, destinandoti a nuova vera vita; oppure quella, più verosimile, di fulminarti all’istante con un raggio di luce.

Togliendoti e soprattutto togliendosi così il problema.

Alcuni contenuti o funzionalità non sono disponibili senza il tuo consenso all’utilizzo dei cookie!

 

Per poter visualizzare questo contenuto fornito da Facebook Like social plugin abilita i cookie: Clicca qui per aprire le tue preferenze sui cookie.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome