Ermal Meta, cori e sorrisi tra storia e futuro

Il racconto e le immagini dei momenti più significativi del quarto incontro del cantautore con il suo fan club ufficiale, tra anteprime, sorprendenti rivisitazioni sonore e familiare sincerità.

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“Io ti ho coperto le spalle scoprendo tutto il mio cuore”: così canta Emma. Il pezzo è Occhi profondi, del 2015, scritto da Ermal Meta con Dario Faini. Occhi profondi è stato il brano con il quale Ermal ha aperto il suo minilive acustico in occasione del quarto raduno del fan club ufficiale la scorsa domenica, e in questa frase vi è probabilmente la sintesi dell’intera giornata, o, più precisamente, il segreto di un rapporto, quello tra l’artista e i suoi compagni di viaggio al di qua del palco, dalle caratteristiche che sarebbe ipocrita non definire peculiari. Ma andiamo con ordine.

Il quarto raduno, si diceva. Che arriva però, a differenza dei precedenti, a diversi mesi di distanza dall’ultimo live, quella esplosiva festa di compleanno al Forum di Assago che ha depositato sul cuore dei presenti — di persona o per interposto affetto — il velo dolceamaro di ogni a presto, che è per definizione incerta certezza. Non si fatica a immaginare, dunque, che gli abbracci caldi di nostalgia e di sole che accompagnano il tanto atteso ritrovarsi siano promesse e premesse di inevitabile bellezza: fuori dal Demodè, il locale di Modugno (BA) scelto come location di questo ritorno a casa, contro un cielo limpidissimo che si ribella al generale Inverno cresce, mattone dopo mattone, una Torre di Babele di accenti, colori, racconti e ricordi. In un attimo, la spinta centrifuga che la notte del 20 aprile aveva riportato ciascuno al proprio quotidiano, come raggi che (a fatica) s’allontanano dallo stesso punto, diventa centripeta in un finalmente!, e se gli occhi si fanno un po’ lucidi quando incrociano di nuovo dei sodali di prospettiva, nessuno sembra trovarlo sorprendente.

Ci si aggiorna su tutto quanto è accaduto dall’ultimo abbraccio, o ci si incontra per la prima volta che poi, davvero, non è la prima se si son già incontrati i pensieri. Si sbocconcella un panino, ci si accende una sigaretta, si ride e si aspetta. Il vociare diventa brezza, e il resto dell’estate ce la mette la gioia di sentirsi liberi, ché non ha senso nascondersi se ogni sguardo ti assomiglia un po’. Ad aggiungere una pennellata di poesia popolare al quadro è il momento del buffet, che celebra le glorie culinarie locali: lo stupore di chi scopre nuovi sapori e l’orgoglio di chi li sente parte della propria storia si fondono, e la convivialità si accomoda al tavolo della festa. E una volta entrati, mentre le giacche vengono accantonate indispettite dall’esser state costrette all’inattività e gli zaini pazientemente cambiano destinazione d’uso supportando gambe e colli stanchi, emozionate aspettative si intrufolano tra un sorriso e l’altro.

Lo schermo che fa da sfondo al palco prende vita, e per circa un’ora ci si sente come catapultati in una pellicola sci-fi, ma di quelle di ottima qualità, quelle che riscaldano il virtuosismo tecnico con un caldo nucleo pulsante: scorrono le immagini del primo concerto di Ermal al Forum, il 28 aprile 2018, fissate su DVD, e il tempo si ripiega su se stesso facendo combaciare presente e passato. Così, le pareti del Demodè diventano gradinate, lo spazio antistante al palco un enorme parterre, e i cori s’alzano in sincrono con quelli di un anno fa in un botta e risposta tra artista di ieri e pubblico di oggi che è insieme straniante ed elettrizzante.

Alla speaker di Radionorba (partner del raduno) Antonella Caramia spetta il compito di chiamare Ermal sul palco: ad accoglierlo, un bentrovato che difficilmente avrebbe potuto essere più caloroso. Due sgabelli, due microfoni, una chitarra, una intervistatrice: che, come naturale conseguenza di una inarrestabile crescita artistica, una parte della quasi sfacciata spontaneità che da sempre caratterizza il relazionarsi tra Ermal e i suoi sostenitori sia stata imbrigliata da una più rigorosa ufficialità? Basta davvero qualche secondo per comprendere quanto infondato sia questo timore: Antonella cerca di indagare sui suoi progetti futuri come un giocatore di poker che bluffa per far inciampare l’avversario, ma il cantautore è come sempre brillante nello schivare le trappole e si limita a rendere palese il suo incontenibile entusiasmo per l’avventura del 2021 nei palazzetti che, afferma, rappresenterà il punto di arrivo di un viaggio che muoverà i suoi primi passi nel corso del 2020. Un viaggio, come sempre, ricco di tappe: l’artista confessa che fin da piccolo ha cercato un canale lungo il quale indirizzare il flusso disordinato e robusto di pensieri e sensazioni che facevano la spola tra testa e anima, e non avrebbe potuto trovare letto fluviale più ospitale della musica. Un amore che non è scelta, ma esigenza, e che ogni giorno viene nutrito con nuovi input tanto dalla vita, quanto dallo studio, del quale Ermal sottolinea insistentemente l’essenzialità. La speaker si arrende, ché sì, quando non arginato dalla matematica di strofe e note, quel tumultuoso fluire è davvero refrattario a ogni barriera, e il microfono passa nelle mani dei supporter, per una inaspettata metamorfosi del normale significato dell’acronimo Q&A: dall’anglosassone “question & answer”, domanda e risposta, all’italianissima accoppiata “quotidianità & amicizia”. Che ci riporta al principio di questo racconto.

Già, al cuore messo a nudo che continua a battere testardo anche quando qualche fibra della sua trama è stata troppo stropicciata per tendersi con la stessa forza delle altre, e battendo suggerisce coraggio e cadenza a un suo gemello più timido, o solo meno preparato ad affrontare aritmie emotive. Chi segue Ermal Meta sa che il suo pubblico ha in comune con lui molti tratti, e quello distintivo è probabilmente la passione. Passione che talvolta porta a inciampare, a scavalcare barriere o a zittire la saggezza, ma che, nella maggior parte dei casi, prende semplicemente la forma di una empatia attenta e non mediata, alla quale l’artista risponde con la medesima, sfrontata sensibilità senza correttore né di bozze, né di rughe. E allora, se s’inizia con qualche curiosità da esaudire sul futuro professionale — Ermal dichiara che il quarto album da solista sorprenderà perché completamente diverso dai precedenti, si produce in un abbacinante sorriso quando racconta che le sonorità saranno marcatamente rock e che a ispirarlo in questo senso è stato l’ascolto della musica classica, lascia che gli occhi si accendano di un orgoglioso luccichio nel parlare di un progetto speciale per la sua Albania, e assume le sembianze di un atleta carichissimo sui blocchi di partenza confermando che un grande live all’Arena di Verona c’è eccome, nei piani per il domani —, rapido e naturale è lo scivolamento verso una intimità che è ormai pilastro di questa relazione sui generis tra artista e sostenitori.

Non esiste niente di più libero dell’Arte, e niente di più liberatorio, tanto per chi la crea, quanto per chi ne gode. Vale per il cinema, per il teatro, per la pittura, e ovviamente per la musica. Questo vuol dire che chiunque senta in sé la spinta a condividere attraverso parole, suoni, colori, dispone di una gamma infinita di suggestioni alle quali attingere, e una altrettanto infinita gamma di forme nelle quali scolpirle. E dunque, l’universo delle sette note è abitato da chi persegue la leggerezza, da chi elabora la sofferenza, o da chi, semplicemente, fotografa l’esistere e lo sviluppa nella camera oscura della propria esperienza. A parità di dedizione, ciascuno di questi territori ha le sue ricchezze, ma espone a specifici rischi: la superficialità, il vittimismo, la sterilità. Tra i tre, il vittimismo è probabilmente il più pericoloso: chi scrive del proprio dolore non per vendere, ma per crescere, cammina perennemente in bilico su un impercettibile filo, e può bastare anche solo una parola troppo esplicita per imprimere a quel filo la spinta fatale nel burrone di un patetico desiderio di farsi eroe.

Ecco: le domande più frequenti che vengono rivolte a Ermal nel corso dell’incontro principiano con un sincero grazie, e proseguono con le motivazioni alla sua base. Spesso, quasi sempre, inerenti al proprio vissuto più privato, e all’aver inaspettatamente trovato in parole  estranee un familiare tremore, ma un tremore sano: quello che ti rende consapevole delle tue ferite, che ti accende ogni senso, e che con le lacrime ti lucida gli occhi, così da permetterti di capire da dove ripartire per rinascere. Non è un caso, no. Perché Meta è uno di quei rarissimi artisti che riescono a far coincidere autenticità e rispetto di sé: nelle sue canzoni, non c’è tonalità di grigio che venga elisa per preservare un ipocrita bianco, né c’è cicatrice nascosta per non offendere la dea Perfezione, divinità prediletta del momento. Allo stesso modo, però, il grigio non si compiace di se stesso spingendo arrogantemente ai margini i colori, né le cicatrici contaminano sprezzanti la pelle intorno a sé: al contrario, l’uno e le altre chiedono che il proprio spazio venga rispettato e, ricordando la loro presenza, rendono più ricchi quei colori e più naturale quella pelle.

Ed è forse anche per questo, per l’amore per la vita nella sua totalità che Ermal presenta come un documento d’identità, che, una dopo l’altra, le voci dei ragazzi di ogni età depositano senza remore sul palco timori, incrinature, timidi o fermi desideri di nuova luce. E l’artista, davanti a questi doni di sé claudicanti e tenaci, come sempre non scappa, anzi: li prende delicatamente tra le mani, li osserva con penetrante attenzione, ne apprezza ogni singolo dettaglio, e li ripone con commovente cura nel suo zaino, quello pieno di storie da rileggere per continuare a sognare, a costruire, a camminare. E poi torna, occhi negli occhi, pronto a ricambiare: gli si chiede del suo rapporto con la fede («Ho fede nell’umanità; ho fede nel fatto che il duro lavoro premia più di qualsiasi altra cosa, anche della fortuna; ho fede nel fatto che ogni grande viaggio inizia con un piccolo passo; e ho fede nel fatto che l’unica cosa che non andrà mai fuori moda è il coraggio. Se tutto questo è riconducibile a un’entità superiore, io non lo so. Ma se esiste un dio, suona la batteria ed è bravissimo»), con gli addii («Perché in “Non abbiamo armi” ho scritto che gli addii non sono mai violenti? Perché secondo me un addio violento è un arrivederci travestito da addio. Un vero addio ha la gentilezza di tutte le cose belle quando stanno veramente per finire, come i tramonti: il sole quando tramonta è docile. E una persona quando va via definitivamente dalla tua vita, non può farlo con violenza:”addio” è anche un modo per dire “ti proteggerò per sempre dentro di me”, e in quello non può esserci altro che gentilezza»), con la responsabilità d’avere illuminato tante uscite d’emergenza che il buio di una sorte inclemente aveva reso indistinguibili («Non ho mai pensato di fare quello che tu hai descritto, perché sono cose naturali. A me viene naturale scrivere determinate cose ed essere incoraggiante, a volte semplicemente perché ho tanta paura io, e quindi cerco di farmi coraggio da solo, e così facendo arriva anche a te, a chi vuol farlo proprio. Tutto ciò che oggi ti sembra insormontabile, domani sarà un granello di sabbia. Te lo dico per certo, perché ho avuto la fortuna e la sfortuna di passarci»). Ermal ci tiene sottolineare con decisione che ciascuno di noi porta sulle spalle il peso tutt’altro che irrilevante della propria esistenza, e che il ruolo di un amico in una voce come lui non è, non può essere quello di caricarlo sulle proprie, ma di provare a rimuovere qualche pietra tagliente dalla strada alla volta del proprio approdo ideale. La musica non ti salva la vita, dunque, ché di messia in svendita il mondo è saturo: solo, ti aiuta a cambiare prospettiva su di essa. Starà a te, poi, lavorare per comprenderla, per valorizzarla, e per renderla il più possibile somigliante alla tua idea di serenità. Caduta dopo caduta, scatto dopo scatto, amore dopo amore. Senza vergognarsi d’essere, fino in fondo. Non c’è mai sussiego, nelle parole di Meta, né un pretestuoso schermirsi: a farla da padrone è, come d’abitudine, una franchezza insieme delicata e ferma, che gli permette d’essere profondamente riconoscente ma mai colpevolmente accondiscendente, di spronare ma non forzare, di suggerire ma non insegnare, e di cancellare i contorni dei ruoli ma non delle identità, creando un abbraccio inclusivo e insieme aperto. Non c’è nemmeno seriosità, sia ben chiaro: Ermal si prende in giro e scherza praticamente su tutto, saltando con disinvoltura dal suo non pervenuto talento calcistico alle disavventure vissute quando era più semplice farsi credere un trasportatore di strumenti che un artista in divenire, dal dialetto barese alle sciocche bagarre sui social, scatenando una ilarità che non si contrappone ai momenti di più intensa riflessione, ma li bilancia, impreziosendoli.

IL LIVE ACUSTICO

Arriva il momento di suonare: Ermal lascia che siano i suoi supporter a suggerirgli da quale brano partire, e, come dicevamo all’inizio, la scelta cade su Occhi profondi:

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E fin da subito, ancora una volta, ci si accorge che il musicista non ha alcuna intenzione di marcare una distanza dal conversatore: Ermal attraversa la sua storia cantautorale da La Fame di Camilla, (gruppo del quale è stato fondatore e frontman dal 2007 al 2013) a oggi rispolverando dei veri e propri gioielli della sua prima produzione, e lo fa navigando spedito con vele di autoironia e lirismo, divertendo e stupendo con una naturalezza alla quale non si riesce mai davvero ad abituarsi a prescindere da quanto sia familiare. Sbaglia le parole, si lascia correggere, ne ride, racconta; e poi gioca, chiude gli occhi, si perde, e stordisce.

Uno dopo l’altro, si susseguono veri e propri scrigni di ricordi come Piccola anima, Vietato morire, Umano, A parte te: ogni coro è un “io c’ero” che non fa necessariamente riferimento a una stagione o a un evento della carriera di Ermal; è più, genericamente, un “io c’ero quando dovevo esserci”, quando quelle note dovevano raggiungermi, quando non sapevo neppure d’aver bisogno di sentirmi sussurrare all’orecchio determinate parole, quando grazie a esse qualcosa ha iniziato a cambiare. La consonanza diventa letteralmente stessa frequenza, e il risultato è una infusione di luminoso coraggio che risulta impossibile descrivere a chi si muova secondo ritmi emotivi differenti: si è fra compagni, si è fra amici, si è fra simili. Ma si è se stessi. E in un mondo nel quale, paradossalmente, imbrancarsi sembra l’unico modo per farsi riconoscere, potersi permettere di approdare allo stesso traguardo ciascuno con le proprie suole e il proprio carico ha il sapore di una dolce ribellione.

A interrompere in punta di piedi il live sono Elisabetta e Elena Messico, fondatrici e responsabili del fan club: anche quest’anno, la community ha infatti deciso di ricambiare i doni ricevuti dal condividere una preziosa avventura umana e artistica con un corrispettivo non materiale, ma dal valore altrettanto inestimabile, ovvero una raccolta di fondi da destinare a una importante causa, così che l’affetto e le emozioni vissute amplifichino la loro capacità di accendere sorrisi di speranza. Destinataria della donazione del 2019 non poteva che essere la popolazione albanese, messa in ginocchio dal terremoto dello scorso 26 novembre. All’annuncio della cifra raccolta, ben 10.150 euro, Ermal non riesce a nascondere la sua sorpresa e grata commozione. Pochi minuti dopo, quella gratitudine prende la forma del pentagramma sul quale sono disegnate le note di Ne doren tende, pezzo che Meta ha scritto nella sua lingua madre, poi inserito nell’album d’esordio de La Fame di Camilla (2009) e nel successivo Buio e luce (2010): una esibizione così sentita da portare sia l’interprete che il pubblico a versare qualche lacrima dal sapore di dolore fratello ed empatia propositiva; «mi avete distrutto», dice l’artista asciugandole via. Ma quella terapeutica distruzione ci si augura contribuirà, anche solo con una goccia d’acqua pura, a fertilizzare il terreno sul quale le speranze di una terra martoriata ma mai arresa torneranno a crescere.

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I lunghi mesi che l’hanno tenuto lontano dal palco sembra che Ermal li abbia impegnati apprendendo le incantevoli tecniche della giocoleria vocale: sfruttando la maggiore duttilità dell’accompagnamento acustico, infatti, l’artista cancella e ridefinisce i confini delle strofe facendo disegnare alle vibrazioni del suo timbro superbe traiettorie di eleganza e passione, e dimostrando una padronanza dello strumento che è propria solo di chi, con costanza e dedizione, ha saputo trovare un equilibrio tra tecnica e follia creativa, così che persino il più audace dei virtuosismi appaia assolutamente naturale. A titolo esemplificativo, pubblichiamo il video di Amara terra mia: cantare proprio questo brano a Bari, col nel cuore i colori e i dolori dell’Albania, avrebbe potuto tradursi in un omaggio quasi cupo. Ma Meta ancora una volta spariglia le carte, chiamando il suo pubblico a riprodurre, sul finale, le variazioni da lui improvvisate; e quest’ultimo, come sempre, accetta la sfida. L’invito tra il serio e il faceto produce un risultato profondamente suggestivo, che sorprende lo stesso Ermal: «Bravissimi! Questa cosa la riproponiamo in un posto più grande, ok? Così facciamo tremare le mura!», chiosa con un sorriso ampio e soddisfatto.

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I doni di un Natale in anticipo sembrano non finire mai, e l’artista si concede anche una apprezzatissima incursione nel mondo sonoro anglosassone, quello che ha contribuito a formarlo e a ispirarlo e che — ci sia concesso dirlo seppur assolutamente consapevoli del suo amore per la lingua italiana e per l’intrinseca armonia che le è propria — non sarebbe azzardato considerare, per molteplici ragioni, il suo habitat naturale: Creep dei Radiohead, e poi Unintended e Falling down dei Muse. Per chiudere, infine, con un inevitabile encore che prima lo porta a intonare la sottovalutata gemma Rivoluzione, datata 2012, e poi quello che ormai diventato un cavallo di battaglia, Hallelujah. Chi scrive si assume la responsabilità del proprio pensiero: Ermal ha in comune con Jeff Buckley quella sanguigna e insieme eterea malinconia che sa di vita graffiata e fiera. Tutta sua è, invece, la capacità di stemperare sapientemente la gravitas con dei precisi tocchi di levità, così che i punti di luce del quadro non vadano ad azzerare le ombre, ma ad accompagnarle. Nel caso di questo pezzo, il punto di luce è il gioco-rivalsa per il quale, per una volta, è lui a ricordare perfettamente il testo al contrario dei supporter… ma nell’esibizione di domenica, Ermal ha completamente affidato le redini all’istinto, e la levità è diventata volo, sulle ali di un battito percussivo che ha lasciato gli astanti a occhi sgranati e parole arrancanti. Ascoltare per credere:

https://www.instagram.com/tv/B6Pq2hBFZhT/?igshid=ymx39sm6r80s

Ma un sogno non si può rifare. Questo è il verso che segue la frase con la quale abbiamo aperto il nostro lungo racconto. Ecco, il raduno di domenica è valso a smentirlo: si può rifare eccome, se il sogno è quello di preservare un angolo di originale, sincera bellezza in una realtà d’ipocrita uniformità. Al prossimo abbraccio, dunque…

Per restare aggiornati sulle nuove tappe del viaggio artistico di Ermal, vi rimandiamo alle sue pagine Facebook, Twitter e Instagram. Per le fotografie inserite in questo articolo, ringraziamo Graziano Marrella-Impressioni61Claudia Albera. Vi segnaliamo, inoltre, le ricche fotogallery di Rebecca Merlin e di Giusy Russo.

Classe ’83, nerd orgogliosa e convinta, sono laureata con lode in ingegneria dei sogni rumorosi ed eccessivi, ma con specializzazione in realismologia e contatto col suolo. Scrivo di spettacolo da sempre, in italiano e in inglese, e da sempre cerco di capirne un po’ di più della vita e i suoi arzigogoli guardandola attraverso il prisma delle creazioni artistiche di chi ha uno straordinario talento nel raccontarla con sincerità, poesia e autentica passione.

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