La separazione tra i sessi è qualcosa in cui vogliamo credere noi.

Ma la natura, che determina ogni nostra condizione, non conosce separazioni tanto nette. Quando osserviamo una distesa di verde, dovremmo sapere che le piante vivono di una sessualità confusa, la stessa che dà vita all’esuberante bellezza che ci colma lo sguardo e l’animo.

La nostra predilezione per le scorciatoie, ci fa credere che le cose stiano in modo tanto semplificato, per cui diciamo generalmente “uomo” e diciamo “donna”, ma dovremmo sapere che in verità esistono svariate gradazioni di queste due dominanti, e in nessuna dimensione personale si raggiunge altezza di beltà quanto nella confusione tra i generi. I Greci lo sapevano molti secoli orsono. E l’arte tutta è profusa di questo attraversamento, senza sosta.

Come potrebbe essere diversamente?

Nel Simposio Platone avanza il mito dell’uomo-donna, un tempo unito, che poi fu separato per castigo, e da allora le due metà si cercano disperatamente, senza mai trovare la pace di una fusione definitiva, antica, primordiale, ancestrale, stellare, universale. Perché l’unione assoluta parla sempre di cielo profondo. Parla di un altrove che nessuno conosce ma tutti possiamo toccare in frammenti di gioia indicibile.

Nell’orgasmo si tocca un cielo interiore, e non si sa spiegarlo, semplicemente perché non si può, né si deve.

Vi sono cose che non vanno riportate alla definizione, perché definire è un processo sminuente. 

Quando penso che buona parte degli artisti che mi hanno formato, i miei maestri naturali, sono state persone che rivendicavano la propria liberazione da un genere definito, mi sento molto più in cara compagnia, meno isolato nel bisogno di assenza di steccati che mi ha sempre accompagnato.

Tornando a ritroso nella storia del pensiero musicale, passo in rassegna la virilità presente nella musica di Nina Simone, risento le note intersessuali del primo Lou Reed, la sua polivalenza difesa e voluta, l’eterea ambiguità sessuale delle orchestrazioni sublimi di Debussy, che disegnano creature nell’aria e nell’acqua, e sono presenze umide e etereamente carnali, in giochi interiori in cui si coglie che la vita nasconde con la bellezza un segreto irrivelabile.

Così come senza sesso definito sono le movenze suggerite al pensiero dalle composizioni surreali di Satie, che sembrano decantare alla luce acerba di giorni sessuati direttamente dal cielo, assai spesso ispirate ai giuochi ginnici dell’antichità, in cui efebi delicati, androgini dal fascino indefinito e ginnasti dal corpo scultoreo erano tutti espressione di una dimensione sessualizzata verso l’alto, a superare le norme e le banalità della separazione tra sessi. E a liberarsi della stessa separazione netta tra cielo e terra.

Tra questi, tra i miei maestri naturali, vi è il mio amico artistico di adolescenza, John Foxx.

Amico intimo di quando io stesso dovevo lottare perché il mio corpo, tendente all’indefinito, evitasse i guai che si pongono a chi non appartiene risolutamente ad una e una sola categoria.

Venivo sovente fermato e indagato da agenti sprovveduti, e minacciato solo per via di occhi bistrati, viso dai tratti femminei, mani dalle unghia laccate di nero, ma mi bastava gettare un’occhiata alla storia del pensiero per sentire il mio respiro allargarsi.

Foxx, se a venticinque anni era di una bellezza androgina, rimarcata da un gusto sopraffino per le arti figurative, che lo portava ad un uso visuale della sua stessa figura, dipinta in video e in fotografia dalla luce, ma più di tutto all’utilizzo del suo viso lungo, chiaro, in cui lo sguardo insieme dolce e vitreo suggeriva contrasti disorientanti tra ciò che è virile e ciò che non lo è già più, più avanti, incrementando la cura del suo aspetto verso uno stile primonovecentesco, pervaso di un’aristocrazia tutta interiore, sembra ricalcare l’avvenenza dorata di Helmut Berger, l’attore pervaso della maledizione della bellezza che porta a rovina, al cinema esaltata genialmente da quel maestro esteta che fu Luchino Visconti, che gli affidava spesso ruoli di confine, tra perdizione e redenzione.

La confusione di genere, nel suo fondale insondato rimanda alla dimensione più ancestrale come aspirazione prima e ultima dell’artista, e ancor più dell’artista musicista: colui che più di altri lavora con l’intangibile.

Forse è davvero il punto in cui anche ciò che abbiamo chiamato Pop, in qualche misura e in qualche parte remota, forse ignota ai stessi protagonisti di quel volo, tocca l’anelito all’assoluto che è nell’animo dell’arte di sempre, e che molti considerano una iperbole.

Molti pretenderebbero sempre e solo la terra sotto i piedi, la distinzione marcata, l’ancoraggio al basso, perché il volo, così come la confusione, spaventa.

Ma iperbole non è, come dimostrò David Bowie, facendo della sua stessa vita un capolavoro Pop.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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