– “Specchio, specchio delle mie brame, chi è più simile a Bob Dylan in questo reame?” – È la domanda che, periodicamente, Francesco De Gregori si pone. La risposta dello specchio magico è sempre la stessa: -“Nonostante al poeta dedichi tanti inchini, quell’uomo non sei tu, ma colui che viene dagli Appennini, il cantautore Francesco Guccini.”-
“Un vecchio e un bambino si preser per mano e andarono insieme incontro alla sera … I vecchi subiscon le ingiurie degli anni, non sanno distinguere il vero dai sogni, i vecchi non sanno, nel loro pensiero, distinguer nei sogni il falso dal vero…”
Il mio dubbio è che Guccini sia stato brevemente bambino e successivamente, irrimediabilmente “vecchio”. Vecchio non di vecchiaia, vecchio del sapere, dell’esperienza iniziata subito, da giovane, quando non c’era tempo da perdere e dovevi correre per cogliere il momento, l’occasione. Dovevi salire sul treno giusto, sul vagone giusto. Possibilmente sulla locomotiva.
Vecchio e pur sempre bambino, nell’emozionarsi, meravigliarsi di fronte ai mutamenti, con quell’ingenuità che leggi negli occhi sgranati, spalancati per raccogliere ogni novità, con infantile curiosità.
Le persone di mare o di montagna vivono la vita in modo diverso, intenso, solitario. Osservano orizzonti maestosi. Diventano saggi di piccole cose, filosofi della semplicità. Vecchi di vissuto non di età. Molte persone di mare o di montagna hanno la barba, intrisa di aria preziosa o di sale. Francesco Guccini scendeva dagli Appennini, dove aveva vissuto come ospite negli anni della guerra, poi tornò nella natia Modena, quindi a Bologna a lavorare. La vita lo ricondusse infine a Pavana, tra le montagne dell’infanzia, tra i ricordi, quei ricordi delle sue radici che narra nelle sue canzoni e nei suoi libri.
Guccini aveva iniziato il suo percorso musicale nelle balere dell’Emilia, tra orchestrine e gruppi musicali beat. Mentre lavorava per un giornale, un incontro con Domenico Modugno gli illuminò la strada che desiderava percorrere: quel percorso fu lungo e per nulla facile.
Ho frequentato Francesco Guccini negli anni più belli. Io talmente giovane e incosciente da avere il privilegio di stare accanto a lui e alla sua storia senza chiedergli nulla, un po’ perchè non ero preparato, un po’ per timidezza e un po’ per rispetto della sua riservatezza. Lui nell’età che trasforma i giovani senza paure e senza tabù in saggi alla ricerca di verità e di virtù. Gli anni dell’entusiasmo creativo per un lavoro che diventa rilassante solo quando hai raggiunto un successo sicuro, appagante, maturo. Lui questo successo l’aveva finalmente raggiunto.
Siamo sul finire degli anni ’70. L’anello di congiunzione con la storia di Bob Dylan è Deborah Kooperman. La chitarrista newyorkese, un po’ come fece Joan Baez con Dylan, ha portato lo stile nel suono folk di Guccini. Sono stati fianco a fianco per quasi dieci anni: gli anni’70, gli anni dell’Osteria delle Dame, delle serate di un panino, un po’ di vino e tante canzoni, anche da provare per la prima volta di fronte a un pubblico poco esigente. Poi sono rimasti amici, come Bob Dylan e Joan Baez.
Con lui ho seguito tappe importanti della sua vita quotidiana: ho partecipato ad una mattinata di lezioni nella Scuola dove insegnava a Bologna, nel rispettoso silenzio dei suoi allievi; ho cenato nei posti a lui familiari, dove la gente non si scompone nel vederlo e neppure insiste nel incoraggiarlo a cantare uno stornello; ho vissuto l’esperienza della registrazione di un suo disco, nello studio Umbi del “nomade” Umberto Maggi, sulla via Emilia a Modena; l’ho accompagnato ad un paio di Club Tenco a Sanremo, dove ha cantato, ma più che altro si è festeggiata, con chitarra e vino, l’amicizia con altri cantautori.
In tutte queste circostanze, non l’ho mai assistito professionalmente. Lui non ne aveva bisogno e io non ne avevo l’esperienza. Gli ho fatto compagnia: quando desiderava parlare, c’ero io ad ascoltarlo, quando voleva stare in silenzio, c’ero io a proteggerlo.
Tra le poche domande che mi ero permesso di rivolgergli, c’erano quelle sulla sua fede politica e quella calcistica. Guccini mi rispose in entrambi i casi in modo inaspettato: Socialista e Pistoiese. Socialista con Nenni, poi, la condotta di Craxi lo indusse a spostarsi più a sinistra. Mi rivelò di aver fatto il militare a Trieste, una cosa che ci unisce, infatti è la città dove io ho trascorso l’adolescenza e, di conseguenza, pur non seguendo il calcio, mi trovo a simpatizzare per la Triestina, squadra abbastanza in ombra, seppure con nobili precedenti, mentre Francesco mantiene fede alle sue origini di montagna tifando per la squadra del capoluogo di Pavana, la Pistoiese. Le due squadre, in quell’epoca, si sfidavano nello stesso campionato.
Ma il Francesco Guccini che amo ricordare è quello in concerto. Il suo spettacolo si affida, ovviamente, ai brani che il pubblico ama, eseguiti con gli stessi fedeli musicisti che per anni lo hanno accompagnato e che, come desidera Francesco, propongono i pezzi sempre nelle versioni tradizionali, originali. Quando parte una nota, il pubblico, riconoscendo il brano, può già cantare, sottovoce per rispetto, insieme all’autore che guida, come un condottiero, attraverso le canzoni simbolo della sua lunga storia.
Ma lo spettacolo è anche affidato al suo dialogare con la gente che è venuta a sentirlo. Ho visto molti concerti, di tanti artisti, e ho sempre invidiato loro la battuta pronta, efficace, che fa ridere o pensare: qualcuno dal pubblico dice qualcosa e l’artista risponde prontamente, in modo adeguato, serioso o spiritoso a seconda dell’argomento. Guccini no.
Guccini è un comune mortale, come me, come noi. Se qualcuno dalla platea gli rivolge una domanda, la prima cosa che dice, spontaneo e incerto, è: – “Eeeh, scusa? Cosa hai detto?”-
Solo dopo, risponderà con il suo bell’accento bolognoese, solare, in modo semplice, elementare, umano. Sono convinto che questa banalità, al suo pubblico piaccia profondamente. Rende Francesco Guccini quello che in realtà è: un puro.
In un tuo giorno, sotto al sole caldo, ci sono nato io, ci sono nato io…”