Il jazz è sempre più musica dell’oggi. Il sound che disegna le variazioni mentali che si verificano, pressoché senza sosta, nella nostra attualità complicata, assillante, scivolosa, ingannevole, precaria, labirintica, nevrotica. Una musica che fa delle spinte in avanti del pensiero e dell’immaginario artistico un modo per afferrare l’immanenza del momento, dell’oggi, dell’adesso. I grandi jazzisti utilizzano l’occhio del ciclone contemporaneo come uno sguardo aperto verso la propria coscienza emotiva, la propria enciclopedia di valori e la propria sintassi psicologica. Nei modi più disparati, classici o innovativi che siano.
Avishai Cohen
Big Vicious (ECM/Ducale)
Voto: 9
Il trombettista israeliano ritorna in patria dopo un periodo negli Stati Uniti e decide di registrare (in Francia) il primo album della formazione che dirige da sei anni. Il titolo del suo nuovo lavoro porta infatti il nome del quintetto con cui lo ha elaborato, formazione che propone, a fianco del leader spesso impegnato anche agli effetti elettronici, due chitarristi (Uzi Ramirez e Yonathan Albalak, anche bassista) e due batteristi (Aviv Cohen — nessuna parentela — e Ziv Ravitz). Ne esce un album molto particolare, evolutivo in ogni sua parte, ricco di un’infinità di spunti, che suona come una sorta di manifesto del post-jazz e del post-pop fusi insieme grazie a un pizzico di psichedelia inafferrabile.
Il primo riferimento sono le due cover, una lettura che sceglie la stilizzazione assoluta per far emergere tutta la poesia della Serenata al chiar di luna di Beethoven e un’incredibile revisione del capolavoro dei Massive Attack Teardrop, ancora più trip-hop e ascetica dell’originale. In questo clima sospeso come i momenti immobili che precedono lo scatenarsi di un temporale estivo, si muovono le altre tracce, quattro firmate da Avishai e cinque da tutta la band (tre con il supporto di Rejoicer, il produttore/musicista Yuvi Havkin).
Il sound di fondo è però volubile: si passa dalla lezione davisiana ormai del tutto interiorizzata (Hidden Chamber) alle sperimentazioni elettroniche più volatili (Fractals), dai sorrisi quasi funky a fior di labbra uniti a incubi spigolosi (This Time Is Different) alle spire avvolgenti di una ambient sci-fi (Intent). E poi il temporale si scatena: è quello dei nostri applausi.
Dino & Franco Piana Ensemble
Open Spaces (Alfa Music/Egea)
Voto: 9
Il trombonista Dino Piana è un “grande vecchio” del jazz italiano. E comincia a essere vecchietto anche suo figlio Franco, eccellente flicornista. Il più giovane della famiglia è il nipote flautista Lorenzo Corsi, figlio del sassofonista (predilige l’alto) Ferruccio e dell’altra figlia Paola. Insieme al novantenne decano, uno che ha tracciato coordinate importanti con il sestetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini e con millanta collaborazioni (compresi Mingus, Baker, Clarke, per dire), al compositore e arrangiatore Franco, il vero deus ex machina di questo ensemble, ai due “nuovi” arrivati, si allinea il top del jazz di stanza nella capitale, Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso, Max Ionata, Roberto Gatto, Giuseppe Bassi, e gli archi della B.i.m. Orchestra.
Il risultato, considerata anche la mano felice, sempre saggiamente distillata, di Franco Piana e la sua lucidità nel lasciare il dovuto spazio a solisti così qualitativi, non poteva che essere di livello superiore. Articolato in due suite da antologia — Open Spaces, un’ouverture e tre variazioni, e i due movimenti di Sketch Of Colours — e tre brani, la ballad melanconica Dreaming, la post-bop Sunshine e la swingante Blue Blues, perfette palestre per assolo luminosi.
Sono le due composizioni più lunghe a convincere appieno, a portarci nei territori della Third Stream postparkeriana, di quella combinazione di jazz e classica finalizzata alla “armonia universale”, con un piglio attualissimo e intelligente, giocato soprattutto sulle combinazioni timbriche e strumentali (tipo archi con sax soprano o flauto oppure trombe sordinate con viola e violoncello) e sull’alternanza mai forzata di atmosfere emotive e sonore. Un album che sarà un delitto dimenticare a fine anno nei poll di qualità.
Jean-Louis Matinier – Kevin Seddiki
Rivages (ECM/Ducale)
Voto: 8
Si apre con un brano che unisce un ballo popolare bulgaro con un tema di Robert Schumann e continua alternando alle composizioni della coppia il classico Les Berceaux di Gabriel Fauré, il tradizionale inglese Greensleeves e la canzone di Philippe Sarde La Chanson D’Hélène. Il fisarmonicista e il chitarrista sono degli habitué del duo, formazione non facile da maneggiare senza cadere nello stereotipo del tecnicismo fine a sé stesso oppure nella discorsività da miscellanea piaciona quanto inutile. Di loro ricordiamo almeno due cd veramente riusciti, Inventio di Matinier con il nostro Marco Ambrosini al nyckelharpa e Imaginarium di Seddiki con il percussionista iraniano Bijan Chemirani, entrambi appunto in duo.
Questo Rivages, che arriva dopo dieci anni di collaborazioni e incontri, vede combinare il suono lirico e quasi aggraziato della fisa di Matinier con il tipico, percussivo e insieme delicato, picking all’acustica di Seddiki. I due musicisti francesi combinano emozioni, anche quando improvvisano direttamente in studio (la tela di ragno di Feux Follets, i sogni senza orizzonte di Rêverie), che fluiscono lente ma inesorabili dal soffietto e dalle corde verso le orecchie di chi ascolta. Brani che fondono jazz, world, classica, new age e contemporanea e che richiedono impegno e dedizione, come fossero le coordinate di una meditazione (la conclusiva Sous L’Horizon è esemplare) cui concedersi senza remore. Un album che ci ricorda che “la musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori”, come insegnava un certo Johann Sebastian Bach.
Malcolm Strachan
About Time (Haggis)
Voto: 8
Ci sono voluti vent’anni di onorata carriera al trombettista scozzese per arrivare al debutto come solista. Una carriera punteggiata da collaborazioni importanti in ambito jazz e funky, da Lou Donaldson a Jamiroquai, da Amy Winehouse a Martha Reeves & The Vandellas, e senza dimenticare la stabile presenza negli Haggis Horns, band e sezione fiati tra le più impegnate, di cui è stato uno dei fondatori. Quello di Malcom Strachan è un ritorno agli esordi, quando il jazz di matrice hard bop che suonava suo padre fu la base della sua educazione musicale.
Qui di quel passato si hanno molti sentori, molti richiami, però il sound è ben diverso, attualissimo e moderno, con un feeling che la Blue Note (etichetta di riferimento di quella magica stagione jazzistica che va sta tra il bebop parkeriano e il jazz-rock davisiano) declinava in maniera differente, meno lirico e immaginifico, meno misterioso e insinuante. È una sorta di piacevolezza diffusa quella che irradia da tutti i brani, sia che ondeggino più latini, sia che occhieggino descrizioni da soundtrack, sia abbiano pulsioni soul jazz, sia che, forse soprattutto, planino con l’incedere avvolgente delle ballad.
Il quartetto di base, con i compagni Haggis George Cooper (piano) ed Erroll Rollins (batteria) e il contrabbassista Courtny Tomas, si allarga spesso al contributo di Atholl Ransome al tenore e Danny Barley al trombone e più raramente a quello degli archi campionati di Richard Curran e alle percussioni del richiestissimo Karl Vanden Bossche. Quella di Strachan è una scatola magica di colori e sapori che sembra un accompagnamento da serata estiva in riva al mare (e lo è perfettamente) e invece si apre come uno scintillante e continuo fuoco d’artificio che disegna nel cielo una seconda luna, la stessa, magica e tascabile, che Murakami Haruki descrive in 1Q84.