I fatti sono i seguenti: Glezös, agitatore culturale da oltre trent’anni ed enciclopedia vivente del punk, ha scritto un bel libro su Walter Zenga intitolato – con gran citazione di Luchino Visconti – Zenga e i suoi Fratelli: Milano, Inter e Periferia anni Settanta. Il cui protagonista, come avrete intuito se siete venuti al mondo negli anni ’70, è l’indimenticabile portiere dell’Inter e della Nazionale italiana, anche se questa è tutto fuorché una biografia messa assieme spulciando Wikipedia e rubando dichiarazioni a caso sul web. Niente a che vedere col cattivo storytelling di quest’epoca, ça va sans dire.
No, Zenga e i suoi Fratelli è più una raccolta di racconti di vita su di una Milano vintage e su di un calcio ruspante che non c’è più. Con sullo sfondo un personaggio sicuramente ingombrante come il numero 1 nerazzurro, dai suoi esordi nella Macallesi 1927 (gloriosa cantera del football meneghino) al crepuscolo di metà anni ’90, quando molti benpensanti non gli perdonarono né l’errore su Caniggia durante le Notti Magiche né un altro tipo di uscite: quelle verbali con cui ha condito tutta la sua carriera nerazzurra, pari solo al coraggio da leone con cui difendeva la porta della Beneamata.
Per farvela breve: Zenga, sportivamente parlando, fu più mod che punk (il suo iconico caschetto corvino), più metallaro (il suo famoso saluto con le corna rivolto alla Curva Nord) che popstar. Una leggenda assolutamente non costruita in laboratorio. E Glezös, in questo suo libro malinconico come il vento d’estate, ce lo restituisce bene, benissimo come solo la letteratura più preziosa sa fare. Andiamo con l’intervista all’autore.
Domanda obbligatoria, Glezös: come fa un tifoso a riappassionarsi al calcio attuale dopo essersi immerso nelle atmosfere anni ’70 e ’80 di Zenga e i suoi Fratelli?
Semplice: non lo segue e basta, esattamente come faccio io. (ridacchia) Voglio dire: ho anche provato ultimamente a guardare qualche partita, dopo la ripresa del campionato rimasto fermo a causa del Covid-19, ma mi sembra che il livello sia sempre lo stesso, no?
Un Glezös assuefatto al calcio moderno?
In realtà avrei abdicato dal mio ruolo di tifoso interista il 22 maggio 2010, quando l’Inter – vincendo la Coppa Campioni al Santiago Bernabeu – conquistava il suo primo, storico Triplete. Come dici? Troppo facile abdicare dopo una simile vittoria? In realtà volevo solo provare gli stessi sentimenti dei miei parenti che videro la Grande Inter di Herrera degli anni ’60. Respirare quell’aria di grandeur. Pensa che la sera della doppietta di Milito contro il Bayern Monaco non ero neanche in Spagna, ma a Milano, pur avendo i biglietti della finalissima. Volevo documentare tutto. Fare un reportage video. Scattare centinaia di foto quando la squadra tornò all’alba da Madrid in un San Siro completamente nerazzurro.
Ok, ma cosa c’è che non funziona nel calcio moderno e che invece ci fa brillare gli occhi in un libro come il tuo?
Il fatto che sia appunto “moderno” e che possano seguirlo con interesse solo quelli nati nel terzo millennio. Sai, quando un venticinquenne di oggi fa lo snob e afferma quanto questo calcio gli faccia schifo, beh, a me suscita solo della gran tenerezza. Intendo dire: questo privilegio di contrarietà appartiene solo a noi di una certa età, che abbiamo visto il “prima”! (ride) E credimi che non ti sto parlando da nostalgico incallito. Al massimo da persona che ha perso il suo transfert amoroso nei confronti dell’Inter e del football in generale. Prima seguivo partite 24 ore al giorno, oggi invece non potrei mai.
Pensi che Zenga e i suoi Fratelli sia un libro troppo “milano-centrico” (difetto frequente del capoluogo lombardo quello di sentirsi sempre al centro del Paese) oppure le storie di periferia, in Italia, si assomigliano un po’ tutte?
Effettivamente mi ero posto questo problema prima di iniziare a scriverlo. Eppure no, non credo sia così nonostante le reazioni emotive del quartiere, della gente di viale Ungheria, siano state fortissime in questo caso: sapessi quanti feedback ho ricevuto! Ma questo d’altronde è nel DNA della rivalità tra Milan e Inter che non sarai mai paragonabile a quella tra Genoa e Sampdoria o a Chievo ed Hellas Verona. E poi in queste pagine c’è quell’aspetto di Milano brumosa, densa, violenta. Da Romanzo Popolare di Mario Monicelli che perfino un trentenne odierno, meneghino di terza generazione, rischia di non saper riconoscere…
Forse questa è più una opera da scrittore vero rispetto a quella che dedicasti, qualche anno fa, alle origini radiofoniche di Vasco Rossi in Alla Ricerca del Vasco Perduto. Che ne dici?
Dico che uno dovrebbe scrivere e parlare solo di ciò che sa. Di ciò che ha visto con i suoi occhi. Millantare, d’altronde, è sempre ridicolo alla faccia di tutti gli storyteller odierni che ti raccontano di Kurt Cobain o George Best come se li avessero davvero conosciuti di persona… Comunque sì, Zenga e i suoi Fratelli è sicuramente un libro più introspettivo ed arioso. Poco storiografico rispetto a quello su Vasco. Non avevo quest’ambizione, ma se tu l’hai notata mi va benissimo così.
A proposito: Walter Zenga è al corrente di essere il protagonista di una vicenda su carta così intensa e commovente?
Non posso confermartelo perché non lo so! (ride) Io il libro gliel’ho fatto avere e so che lui ne ha pure accennato in una intervista uscita su di un settimanale. Certo a Walter appena gli citi viale Ungheria, il suo viale Ungheria, gli parte subito la lacrimuccia. E questo suo attaccamento di pelle al quartiere, per me, resta bellissimo e struggente.
Tu, nel libro, ti fai scappare un’opinione mica da poco. Ovvero che Zenga abbia chiamato veramente quella palla sul fatale colpo di testa di Claudio Caniggia durante la semifinale di Italia ’90…
Sì. Walter si incazzerà sicuramente se leggerà mai questa intervista, ma per me le cose, quella notte al San Paolo, andarono esattamente così.
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Quindi, ricapitoliamo. Napoli, 3 luglio 1990. Semifinale della Coppa del Mondo tra Italia e Argentina, con gli azzurri temporaneamente in vantaggio grazie al gol di Totò Schillaci. Maradona serve Olarticoecha, non pressato, che scodella un bel cross a centro area. Ferri tentenna, Zenga grida “mia!”, attimo tremendo di esitazione e Caniggia lo frega colpendo la palla di nuca. Ti convince?
Molto, mi convince molto. Così come mi convince che non fu Walter l’assassino di quel Mondiale: colui che, col suo errore, ce lo fece perdere rovinosamente. Questo mai. Dopo quell’uscita avventata ci fu quasi un’ora di tempo per fare un secondo gol (compreso il recupero mostruoso dell’arbitro francese Michel Vautrot nei supplementari. Ndr) più la serie dei calci di rigori e l’eventuale finale con la Germania. A noi italiani piace da morire trovare sempre e comunque un capro espiatorio, ma fu l’inerzia azzurra a non farci vincere quella partita, non il dramma personale di Zenga.
E poi tu, tra queste pagine, nobiliti pure la “splendida sconfitta”, vero?
Esatto. Non le disfatte tipo Spagna-Italia 4-0 degli Europei del 2012, ma i gesti sportivi da cui non si torna indietro, affrontati con la verve del campione. Tipo Zenga a Italia ’90 o il rigore sbagliato di Baggio a Usa ’94. La “splendida sconfitta” te la porti orgogliosamente sulle spalle, non la nascondi mai agli occhi del pubblico.
Che poi, a dircela tutta, Zenga non è mai stato granché fortunato con le semifinali europee e mondiali. Eliminato due volte dal Real Madrid (lui con la maglia dell’Inter) in semifinale di Coppa UEFA nel cuore degli anni ’80, fuori ad Euro ’88 contro l’Unione Sovietica quando era il portiere della Nazionale, l’Argentina in quel di Napoli e l’Arsenal in Coppa delle Coppe quando vestiva la maglia della Sampdoria. Una sorta di cabala la sua?
Mettiamola così: in Walter c’è sempre stata una vera e propria ribellione alla sfiga. Se ci pensi bene, Zenga non ha mai avuto l’aria del vincente a priori, ma del portiere nervoso che non si arrende mai. Ok, c’è stato lo scudetto dell’Inter dei record nel 1989, ma quelle di Zenga in maglia nerazzurra non sono mai state vittorie semplici, ma partite sofferte fino all’ultimo. La sua più grande gara con la maglia della Beneamata la compie nel 1994, quando vince la sua seconda Coppa UEFA contro il Salisburgo, ma sa già in cuor suo che la società ha deciso di mandarlo via. Molto romantico, ma anche parecchio triste. E lui che fa? Se ne sbatte, risponde che non gliene frega nulla, da perfetto bullo di viale Ungheria.
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Dimmi la verità: è vero che non gli parli da quasi cinquant’anni?
Sì, ci siamo conosciuti da bambini – come racconto nel libro – e da allora non ho più avuto contatti con lui. A San Siro l’ho incontrato parecchie volte, da distante, ma non mi è mai venuta voglia di andarmi a presentare. Per me Walter non era un predestinato: era un teenager degli anni ’70 come tanti tra di noi. Un puro del Viale che poi ha fatto la grande carriera che ha fatto. Non era programmato per il successo come Claudio Ambu, una grande promessa interista, anche lui originario della mia stessa periferia, che poi però, paradossalmente, non ha mai sfondato a grandi livelli.
Walterone invece…
Lui è diventato uno dei simboli immortali dell’Inter. Con quella parlata schietta. Con quel suo slang. Con quella stizza che pure oggi non viene via dal suo ego. Con quel coraggio folle che lo portava a buttarsi tra i piedi dell’attaccante parando con tutto il corpo. Una vita da film, la sua. Altrimenti mica ci avrei scritto sopra un libro! (ride)
Forse è davvero giunto il momento che vi riabbracciate, no?
Chi lo sa. Ora lui allena il Cagliari ed è parecchio impegnato col suo mestiere. Sta facendo bene in Sardegna. Magari tra qualche mese…
Piaciuta l’intervista? Se vuoi saperne di più su Zenga e i suoi Fratelli: Milano, Inter e Periferia anni Settanta di Glezös clicca QUI.