L’Academy Awards ha reso noti nella giornata di ieri i nuovi criteri che saranno utilizzati, a partire dal 2024, per scegliere il vincitore della categoria Miglior Film agli Oscar.
Sarà inclusività la parola chiave.
Una scelta da ricondurre principalmente all’impegno che Hollywood aveva preso cinque anni fa in seguito alla polemica #OscarSoWhite sul mancato premio a Selma, il film dell’afro-americana Ava DuVernay sulle marce per il diritto di voto ai neri. Ma anche al #MeToo e alle innumerevoli polemiche nate negli ultimi tempi dalla mancanza di candidature di registe donne, e di film diretti da donne, nelle categorie più importanti dei premi (qui abbiamo ricordato, tra gli altri, il gesto simbolico di Natalie Portman agli Oscar 2019).
Ma ora la musica cambia! Per vedere il nome del proprio lungometraggio tra quelli che gareggiano per la statuetta più ambita, si dovranno infatti rispettare alcuni standard che cercano di tutelare le categorie minoritarie. Si parla nello specifico di donne, LGBTQ+, diversamente abili, minoranze linguistiche ed etniche che dovranno essere obbligatoriamente rappresentate in una certa percentuale dietro le quinte e sullo schermo.
I criteri di inclusività richiesti, che andranno in vigore dal 2024 ma dovranno essere accettati con un modulo e una dichiarazione da tutti i film in gara già a partire dal 2022, sono quattro e riguardano: la trama e i protagonisti, la sezione di produzione, nuove assunzioni e stage e l’area marketing.
Per quanto concerne le sezioni tecniche (produzione, nuove assunzioni e stage, area marketing) il problema sollevato dall’opinione pubbica è lo stesso di sempre: la meritocrazia.
La necessità di avere – per poter vincere l’Oscar come miglior film – una percentuale di donne, diversamente abili, LGBTQ+, ispanici, afroamericani o appartenenti a un qualsiasi tipo di minoranza a lavoro tra sceneggiatori, stagisti, produttori e pubblicitari, non necessariamente premierà la qualità di un lavoro. La professionalità infatti non ha sesso, genere o etnia.
E, allo stesso tempo, una maestranza scelta solo perchè appartenenente a una certa categoria, non si sentirà di certo gratificata a sapere di essere sul set di un film, non per meriti e capacità, ma perchè facente parte di una parcentuale obbligatoria. Ogni lavoratore diventerà così un numero, una semplice pedina necessaria alla costruzione di un film che ambisce ad essere premiato.
Il fine però giustifica i mezzi, un po’ come accade con le quote rosa nel parlamento italiano. Quasi nessuna donna le vorrebbe e quasi tutte le donne (anche chi scrive questo pezzo! – ndr) le considerano offensive. Permettere a un politico di sedere negli scranni di Montecitorio solo perchè donna – e non per le sue capacità – non è certo qualcosa di cui vantarsi. Ma è anche vero che di membri del gentil sesso in politica se ne vedono pochissimi e che se non ci fossero delle quote precedentemente stabilite che ne facilitano l’elezione, probabilmente se ne vedrebbero ancora meno. Si tratta quindi di un mezzo momentaneo per ricalibrare una situazione squilibrata, e lo stesso sembra accadere al cinema americano.
I nuovi requisiti tecnici sul Miglior film, quindi, sembrano essere stati accettati dai più. A parte le solite polemiche sollevate sul politically correct imposto da Los Angeles, da sempre vista come la capitale democratica dei radical chic.
Il punto che ha fatto discutere maggiormente, in realtà, è quello che riguarda la necessità di avere – oltre che membri dello staff – anche un certo numero di attori, riconducibile a una categoria minoritaria.
Nello specifico per poter vincere l’Oscar come Miglior film un lungometraggio deve rispettare 2 dei 3 sottorequisiti richiesti e qui riportati:
- avere tra i protagonisti o personaggi principali almeno un attore appartenente a un gruppo etnico o razziale sottorappresentato (asiatici, ispanici, latini, neri e afroamericani, indigeni, nativi americani, nativi dell’Alaska, mediorientali, nordafricani, nativi hawaiani o di altre isole del Pacifico o comunque appartenenti ad altre etnie sottorappresentate)
- assicurarsi che il 30% degli attori che ricoprono ruoli secondari o minori sia donna, o appartenga a uno dei gruppi razziali o etnici di cui sopra, o si definisca LGBTQ+, o abbia disabilità cognitive o fisiche o sia non udente o ipoudente. Serve però che il 30% sia raggiunto almeno grazie a due diverse categorie (es. non basta che ci sia solo il 30% di donne, o di diversamente abili o di appartenenti a una minoranza linguistica. Servono persone appartenenti ad almeno 2 caegorie differenti)
- portare sullo schermo una trama che sia in qualche modo incentrata su temi che riguardano donne, non bianchi, persone LGBTQ+ o persone con disabilità
Posto che la questione meritocrazia vale per gli attori, così come per chi lavora dietro le quinte, e che siamo già passati a capire che si tratta di un mezzo – oggi ancora necessario – per raggiungere una parità che non esiste, in questo caso c’è qualche riflessione in più da fare.
Tanto per cominciare imporre una percentuale prestabilita di attori – principali e non – che rientrino in una categoria minoritaria, incide per forza di cose sulla trama del film. E pone limiti, più che opportunità, all’estro creativo e al lavoro di chi quel film lo pensa e lo sta realizzando.
Esistono poi storie meritevoli che non coinvolgono necessariamente un soggetto considerato debole e che dovrebbero essere raccontate, e perchè no premiate, e che rischiano invece di rimanere nel cassetto di un regista a causa dei nuovi standard richiesti. Così come esistono grandi film, del passato e del presente, che ci hanno fatti emozionare, commuovere e riflettere anche se portavano sullo schermo un personaggio “ordinario”.
Inoltre – ed è forse questa la cosa più importante – basta riguardare la lista dei film usciti negli ultimi 15 anni, e spesso candidati e premiati agli Oscar in diverse categorie, per accorgersi che, fortunatamente, iniziare a raccontare storie di personaggi appartenenti alle minoranze, molto spesso incomprese e vessate, è stato naturale per il cinema americano e internazionale. E non ha avuto bisogno di obblighi o incentivi.
Black Panthern; 12 anni schiavo; Green Book; Quasi amici; Django Unchained; I segreti di Brokeback Mountain; Roma; The Danish Girl; Moonlight; Parasite; The Millionaire; BlacKkKlasman; Molto Forte incredibilmente vicino; Chiamami col tuo nome; Il diritto di contare; Tre manifesti a Ebbing, Missouri; Philomena; The Help sono solo alcuni dei titoli che hanno portato sullo schermo donne, afroamericani, minoranze etniche, persone con disabilità, omosessuali e transgender.
E lo hanno fatto perchè qualcuno ha sentito davvero il bisogno di raccontare le loro storie, e questo vale decisamente più di un requisito obbligatorio. Lo hanno fatto perchè era giusto e necessario in quel preciso momento farlo. E non perchè fosse la possibilità di tenere tra le mani una statuetta con l’incisione “Miglior Film” a suggerirlo e imporlo.