Buffa e Tranquillo in Arena di Verona: l’ultimo ballo di Michael Jordan (racconto)

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È un’Arena di Verona completamente esaurita (3.800 paganti) quella che accoglie Federico Buffa e Flavio Tranquillo per uno degli spettacoli inseriti nel palinsesto del Festival della Bellezza, dal titolo Michael Jordan: The Last Air Dance.

Ma si può parlare di bellezza riferendosi ad un giocatore di pallacanestro? Se si parla di quello che probabilmente è stato il più grande cestista di tutti i tempi probabilmente sì.
E chi meglio dei due più grandi telecronisti di basket della nostra generazione per narrare le gesta del numero uno di sempre?
Come detto nell’introduzione allo spettacolo “l’eroe è un danzatore acrobatico sul ritmo ipnotico di un palleggio”. E Michael Jordan è stato esattamente questo: molto più di un semplice giocatore di basket, molto più di un tiratore, molto più di un atleta capace di saltare così in alto, ma uno che faceva tutto questo insieme, con una grazia stilistica che si fatica non definire “bellezza”.

Certo, se dobbiamo parlare di pura “bellezza” estetica nel basket non si dovrebbe prescindere da Earvin “Magic” Johnson, di cui Jordan stesso ha detto «Non credo che ci sarà mai più un altro playmaker di 206 centimetri che sorride mentre ti sta umiliando», e il cui soprannome “Showtime” rende decisamente bene il concetto, ma Michael è stato qualcosa di più.
Stiamo parlando di specie di semidio, qualcuno che è riuscito a creare un prima e un dopo di lui, quantomeno nella storia dello sport (e non solo del basket), e a occhio solo un’altra persona, un paio di migliaia di anni prima, c’era riuscita.
Perchè Michael Jordan non è stato solo un giocatore di pallacanestro, ma un personaggio che ha importato nello sport un modo di giocare, di competere e una mentalità di un certo tipo, che prima di lui semplicemente non esisteva e che dopo di lui tutti i più grandi di ogni sport hanno mutuato.
E il tutto danzando sul parquet ma soprattutto nell’aria come se dovesse sfidare le leggi della fisica. E chissà che piuttosto che la leggenda metropolitana sul calabrone non sia proprio lui quello che riesce ad infrangere questi dogmi, riuscendo a saltare più in alto di tanti e a rimanerci di sicuro più di tutti, tanto da meritarsi vari soprannomi, tra cui Air o His Ariness (Sua Altezza Aerea nella celebre telecronaca del film Space Jam fatta dal mitico Sandro Ciotti).
Quindi sì, possiamo decisamente considerare Michael Jordan un portatore di bellezza.

La conversazione-spettacolo ha come base le ultimi due trionfali stagioni di Jordan ai Bulls, quelle del ’97 e del ’98, rispettivamente quinto e sesto titolo NBA per il numero 23.
Sulla scia di The Last Dance, la produzione Netflix sull’ultima stagione di quei Bulls che ha frantumato ogni record di ascolti, Buffa e Tranquillo narrano alcuni degli episodi che tutti hanno potuto vedere sullo schermo, ma condendoli di considerazioni, aneddoti e racconti personali, perchè loro a quelle Finals c’erano, allora telecronisti per TelePiù.
L’abilità di storytelling del duo è celeberrima ed è probabilmente la coppia più azzeccata di sempre come commentatori sportivi, almeno in Italia.
Sono molti i flashback durante il racconto, come nel caso della serie, oltre ad aneddoti ripescati dalla lunghissima carriera lavorativa del duo, che fanno sì che le due ore di spettacolo scorrano via piacevoli ed interessanti anche per chi non è esattamente un fan della palla a spicchi, tanto è grande la capacità dei due di coinvolgere l’ascoltatore e portarlo dentro il loro racconto.
D’altronde la sceneggiatura della storia raccontata è tanto avvincente e magnetica quanto incredibile e perfetta che nemmeno i migliori sceneggiatori di Hollywood sarebbero arrivati a tanto, e invece è successo tutto per davvero. Come quella rubata a Malone a 42 secondi dalla fine in gara 6 delle Finals ’98 e quel giro a U sul povero Bryon Russell, tiro in sospensione che accarezza la retina e consegna MJ alla leggenda, con una storica telecronaca del duo che vede Tranquillo quasi in trance mistica invocare “Michael Jeffrey Jordan” come fosse una nuova divinità ascesa all’Olimpo dopo quello che negli anni a venire è stato rinominato “The Shot”, il tiro, l’ultimo della carriera di Jordan coi Bulls. (se non l’avete mai visto, e dubitiamo fortemente che sia possibile, trovate il video in fondo all’articolo).

Una storia su tutte può raccontare alla perfezione questa mentalità, ed è raccontata anche in The Last Dance: durante una partita della stagione ’92-’93 i Bulls giocano a Chigago una partita contro i Washington Bullets e vengono battuti, con LaBradford Smith che mette a referto 37 punti (eccezione incredibile, nel resto della sua carriera non ha mai segnato più di 17 punti in una partita). Dopo la partita Smith si avvicina a Jordan e gli dice «nice game, Mike». Nelle interviste post-partita Michael si lamenta dell’eccessiva spavalderia dell’avversario e il fato vuole che proprio il giorno dopo la stessa partita si giochi a campi invertiti. Jordan è così offeso per le parole di Smith che nello spogliatoio, prima di scendere in campo, dice ai suoi compagni che segnerà lo stesso numero di punti che il suo avversario ha fatto la sera prima, solo che lo farà nella prima metà della partita. Non ci riuscì ma ci andò vicino, mettendone 36 nel primo tempo invece di 37, ma alla fine i Bulls vinsero di 25.
Il povero LaBradford Smith aveva solo commesso il peccato di essersi messo sulla strada di Michael Jordan, e lui aveva deciso di eliminarlo da davanti a lui, umiliandolo. C’è solo un piccolo dettaglio: Smith non aveva mai detto quel «nice game, Mike». Tutta la storia è stata creata ad arte dallo stesso 23 col solo scopo di crearsi un nemico da sconfiggere, per auto-stimolarsi a dare ancora di più.
E’ il tipo di applicazione che divide gli eroi dai comuni mortali, che spinge ad alzare ogni giorno l’asticella dei propri limiti, arrivando a nuove vette e segnando nuovi standard.
Ed è lo stesso tipo di mentalità che successivamente ha mutuato Kobe Bryant, tanto da arrivare a chiamarla Mamba Mentality. Ed ovviamente era impossibile non ricordare con un lungo applauso quello che forse è stato l’erede più diretto di Jordan sotto tutti i punti di vista.

Quelle di ieri sera sono state due ore di “chiacchierata” su un uomo che, nel bene o nel male, ha cambiato la storia degli sport professionistici, del marketing nello sport, del lato mentale applicato a quello fisico, entrando nella leggenda e diventando un punto di riferimento per le generazioni successive e che, ne siamo certi, continuerà ad esserlo ancora per molti, molti anni.

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