Calabria Terra Mia: la linea sottile fra tradizione e luoghi comuni

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Calabria Terra Mia

Faccio parte di quella piccola fetta di calabresi che lo scorso gennaio non ha votato per Jole Santelli come presidente della Calabria. Ma la prematura scomparsa, dopo una lunga malattia, della prima donna che ha ricoperto il ruolo politico più alto nella mia Regione, ha sconvolto e rattristato tutti, me compresa. Mi sarebbe quindi davvero piaciuto poter dire che il corto Calabria Terra mia, scritto e diretto da Gabriele Muccino e fortemente voluto dalla Presidente, era l’ultimo regalo e l’ultimo atto d’amore lasciato alla Calabria.

Ma davvero non posso farlo. E me ne dispiaccio.

Questi 6 minuti (più 2 di titoli di coda), presentati il 21 ottobre al Festival del Cinema di Roma, che vedono protagonisti Raoul Bova e sua moglie Rocio Munoz Morales, avrebbero dovuto descrivere la Calabria più vera, i suoi colori e i suoi sapori. Avrebbero dovuto rappresentare una minuziosa e studiata operazione di marketing per poter promuovere il settore turistico, che da solo potrebbe trainare l’economia di una delle ultime regioni d’Italia. E invece hanno miseramente fallito.

Nulla di negativo si può dire sulla fotografia, sulle riprese dall’alto e sul montaggio, bisogna essere onesti. In fondo parliamo sempre di un regista di lungo corso con una carriera alle spalle che negli anni ha raggiunto anche Hollywood.

Inutile ribadire, poi, che paesaggi, agrumeti, mare cristallino e tramonti mozzafiato non hanno bisogno di grossi artifici e inquadrature strategiche: la natura è stata più che generosa con la Calabria. E le bellezze che da sole bucano lo schermo, lasciano senza fiato anche quando a riprenderle è un semplice smartphone.

La voce narrante che descrive una casa da cui ci si allontana per non allontanarsi mai e in cui si torna sempre volentieri, tutto sommato, non è nemmeno tanto male.

Quello che davvero non torna, però, è ciò che fa da sfondo a tutto questo.

Si parte già malissimo con la prima scena in cui Bova, mentre guida, posa la mano sulla coscia della Morales rimasta nuda a causa del vento. Questo gesto, più che di dolcezza sa di maschilismo, e pare la rappresentazione di un uomo che vive in un tempo che non esiste e che preferisce essere padrone e non compagno. Una scelta sicuramente infelice e poco in linea con i tempi che necessitano di parlare sempre più di parità di genere, che passa però in secondo piano con la prima battuta: “Dove vuoi che ti porto?”.

Non si capisce bene se si tratti di un errore del dialogo (e perchè non è stato corretto?) o del voluto ritratto di una regione arretrata in cui anche i congiuntivi sono un optional, fatto sta che questo verbo all’indicativo è un ulteriore elemento che contribuisce oggi alla bocciatura di un progetto costato alla regione Calabria 1 milione e 700.000 euro.

Più scorrono i minuti e più, se possibile, si peggiora. Si arriva – attraverso un tour culinario in cui Rocio assaggia bergamotti, clementine, arance e fichi – alla descrizione di una terra anacronistica che non esiste più da almeno 50 anni. A un susseguirsi di stereotipi che non hanno nulla a che vedere con le tradizioni calabresi. Uomini con coppola in testa e bretelle in bella vista che giocano a carte nella trattoria del paese, bevendo vino. Donne dai capelli lunghissimi e dagli abiti castigati che arrossiscono solo vedendo due sconosciuti turisti passeggiare per la città. Il figlio di emigrati che ritorna al paesello con la jeep nuova di zecca e dorme in un casolare arroccato. Ragazzi di non più di trent’anni vestiti come forse i nostri nonni facevano nel primo dopoguerra e intenti a scrutare, con sguardo lascivo, dall’alto in basso la bella attrice spagnola. L’asino portato alla fune in giro per il paese da il colpo di grazia: è vero che i trasporti in Calabria non sono proprio granchè, ma elettricità e carburanti sono arrivati, questo pare un po’ troppo.

Il tutto è condito da dialoghi che sottolineano un marcato accento che ricorda il siciliano più che il calabrese. E da una colonna sonora che, anzichè valorizzare i tanti cantautori autoctoni che ora come non mai si stanno facendo largo nel panorama musicale italiano, si tuffa nelle atmosfere corleonesi e antiquate del Padrino.

La corsa che i due innamorati fanno verso la terrazza di Tropea ricorda invece a tratti quella che Niki e Alex (interpretato dallo stesso Bova) fanno verso il faro in Scusa ma ti chiamo amore di Federico Moccia: va bene per un film adolescenziale, meno si presta a un corto d’autore che dovrebbe essere un veicolo di promozione turistica.

Banali le battute sul legame tra il mare e gli occhi azzurri del Raoul nazionale. Poco condivisibile inoltre la scelta di lasciare fuori dalle riprese tanti luoghi che meritano di essere visitati: come le montagne calabresi che hanno la peculiarità di gettarsi in mare, i giganti della Sila, i siti archeologici, i 15 borghi calabresi riconosciuti tra i più belli d’Italia o i vigneti che producono prodotti di eccellenza esportati in tutto il mondo.

Il corto di Muccino in fin dei conti è il racconto di qualcuno che la Calabria la conosce poco o nulla. E che si è lasciato trasportare dai clichè, dalle immagini distorte e da qualche – forse innocente – pregiudizio. Ben venga il legame che i calabresi hanno con il raccolto e con la terra, a patto però che ci si ricordi anche che tanti giovani imprenditori hanno scelto di investire nel settore agricolo di casa propria. Ben vengano le spiagge incontaminate, anche se quelle rimaste tali sono ben poche. E ben vengano gli odori e i sapori che sanno di buono e puro che non coincidono però con la descrizione di un luogo in cui il tempo e il progresso sembrano essersi fermati.

Calabria Terra mia è la fotografia scattata dagli occhi di chi dimentica che semplice non vuol dire obsoleto e che tradizione non è sinonimo di arretratezza.

E comunque, ad onor del vero, caro Raoul, se vogliamo dirla tutta nella nostra sopressata tradizionale ci va il pepe nero, non il finocchietto!

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