Arrivare alla stanza più segreta era un vero e proprio atto sessuale. 

Per raggiungerla si rendeva necessario l’attraversamento di molti differenti ostacoli: corridoi dai pavimenti incerati e dalle pareti beige tempestate di raffigurazioni di sevizie ai danni di santi, ritratti oscuri, croci mastodontiche e cuori di vetro ricamato d’argento, antiche panche di legno nero lucidissimo. Ostacoli che parevano posti come prove per la volontà di trasgressione, testimoni fissi e giudicanti del tuo passaggio, che si doveva dar prova di superare per giungere a destinazione. 

Finché, nell’odore penetrante di incenso e muffa, approdare al misterioso silenzio gelido di stanza secondaria, di camera dimenticata, accendeva i sensi come l’approdo al letto in cui ci attende una soave amante nelle cui carni liquideremo tutto il nostro dolore. 

Oltre la porta di vetro goffrato, in quell’interno voluttuoso stagnavano, congelati, alcuni strumenti. Un paio di pianole elettriche, anonime, come puttane docili, un harmonium dimesso, dai tasti d’avorio irregolari, e infine due chitarre, una elettrica, vanamente votata ad un colore acceso come fosse il vezzo stupido, il pessimo maquillage sul viso di un’adolescente maldestra, e poi una dodici corde. 

Per dare luce a quelle meraviglie in attesa di essere consumate come un pasto voluttuoso e proibitissimo, si doveva individuare l’interruttore che illuminava dopo diversi scatti un’alta plafoniera al neon. Lo squallore della stanza emergeva allora in tutta la sua durezza e il pavimento di piastrelle a macule di gragnola rosa antico e brune, era di una vanità tutta ecclesiastica. 

E il silenzio, mio dio, durissimo e freddo, toccabile, fissava tutte le cose così come le idee, rendendo quel peccato sublime poiché di difficile realizzazione.

La pianola, accesa col sommo dell’impudenza che bisognava avere una volta giunti sin lì, mandava dalla ventola un soffio puzzolente di aria inscatolata. Le note che emetteva, oscene e antiquate, facevano uno squasso mediocre nella fissità della stanza e sembravano voler offendere il crocifisso troppo piccolo, appeso a un chiodo di fortuna, al punto da risultare troppo alto, posizionato a caso nella vastità brulla della parete, alle cui sommità si scrostava a lembi l’intonaco. Ma gli accordi, tentati con la forza di una trepidante disperazione, apparivano immediatamente così seducenti ai sensi, e facevano sognare con una tale morbidezza luoghi dello spirito in cui collocare nuove visioni, musiche volute come muschi sulla pietra più dura, e violente, da generarmi un dolore irrisolto in fondo al petto, accrescendo, dato il divieto di trovarsi lì, la lascivia di un furto resosi necessario. 

Rubavo a me stesso e alla storia della mia vita, giacché in quel posto non avrei potuto avere accesso, e per farlo eludevo con tutta la protervia del mio desiderio una blanda sorveglianza dei frati all’ora di pranzo o immediatamente dopo, quando tutto il santuario sembrava aggredito da una placidità imposta e sopravvenuta ad impriogionare ogni attività del luogo in una dimensione priva di collocazione. Quello e non altri era il momento di colpire: al posto di mangiare, varcare non visto l’uscio secondario di vetri, affrontare un atrio stinto e poi infilare il corridoio lunghissimo, sentendo alle spalle l’olezzo di minestre di cavolo infettare l’edificio come una maledizione. E io vi camminavo col tremore nelle mani, col tremore alle ginocchia e la gola arsa dall’eccitazione, e tutta la forza elettrica del mio animo mi portavano senza suoni di passi sino a quella stanza recondita, malata, inviolabile, destinata a chissà chi, se sempre mi era parsa disabitata, abbandonata da qualunque idea di uomo e di mondo, ma esistente solo come mia chimera, e per il resto solo un orpello superfluo alla vita monastica. 

Ero un forestiero. Forse un nemico. Non avrei accettato di recitare un solo ave maria. Non mi sarei fatto un segno di croce neppure se obbligato sino a spezzarmi le braccia, né avrei mai affrontato ore di penitenza in ginocchio, in ascolto delle silenti parole del signore, nell’attesa che quelle venissero a depositarsi dentro come verità assolute, manna aeriforme, per trasformare chi le udisse in servi dell’altissimo.

Vivevo la mia parte di infiltrato dall’esterno per il richiamo irresistibile e spaventosamente erotico degli strumenti celati in quel deposito osceno in cui togliersi la verginità creativa. E questo riempiva il mio cielo interiore sino a rendermi pazzo di gioia, e regalarmi un piacere che nessun orgasmo mai avrebbe eguagliato in luce. 

Avrei numerose, infinite volte prima e dopo cercato il piacere provando la mia carne e quella di segrete conniventi, lo avrei tentato e ritentato, lo avrei sgusciato e evocato, suscitato e scandagliato sino quasi al dolore, sino a non poterne più, a non volerne più. Ma negli anni quella luce meravigliante della musica non sarebbe mai stata eguagliata in grandezza. Mai. Mai pareggiata, mai. Quegli atrii, quelle stanze schifose e lustre, orrendamente nettate, erano la sommità di un paradiso esistente solo per me, dato l’abbandono in cui versavano e del quale sapevo diventare, col furto, unico principe. 

In seguito sarei stato ammesso dai frati stessi alla stanza della musica, e il frate priore avrebbe acconsentito alla mia libera introduzione nel luogo sacro benché non fossi un seminarista. Grazie alla supplica del mio compagno di scuola che tanto mi amava – devoto a San Francesco e facente parte della congrega di giovani seminaristi – , malgrado la mia estraneità al luogo, avrei avuto il permesso dal più anziano di loro a trascorrere ore immerso nella musica mentre tutti i devoti adolescenti si dedicavano alla grigia attività di preghiera. 

– Lui prega così, disse il frate. Era un giovane sui trent’anni, stempiato, dagli occhi vivaci. Gli dissero che dipingevo, allora chiese un dipinto come scambio per la mia ammissione nella struttura, considerando, aggiunse, di dover sopportare anche il mio rifiuto a partecipare alle preghiere. Ci aveva a lungo provato a introdurmi alla preghiera, mi aveva promesso la creazione di un gruppo al completo con altri valenti musici, ma niente. Gli dissi per ingraziarmelo che sapere gli altri impegnati in preghiera favoriva la mia ricerca musicale. 

– Tu ricerchi? – chiese il frate tra il serio e il divertito. 

– Sì – ammisi come dicendolo a me stesso. 

– E cosa cercheresti, se rifiuti persino dio? 

– La bellezza, gli risposi ingenuamente. 

– La bellezza – ripetè il frate sorridendo con amarezza, e la cosa doveva averlo colpito, perché in seguito non mi tentò più con le sue immagini di estasi legate alla preghiera. Che cosa potevano mai essere rispetto a ciò che io provavo anche solo nell’avvicinarmi agli strumenti? Tra un incontro amoroso con la più desiderabile, con la più incantata, e quell’ora di musica, io sapevo che, benché lo negassi a me stesso, sapevo che avrei scelto la musica. 

Il frate disse al mio compagno seminarista che io ero dotato di una mia speciale spiritualità. Gli feci il dipinto. Era un goffo San Francesco stagliato su uno dei cieli che allora tentavo di realizzare ad olio. Una delle cose peggiori che avessi mai dipinto, ma dopo svariati tentativi, temendo di perdere tempo prezioso per quello scambio, lo consegnai, e a lui piacque. Ma sono certo che non fu il dipinto a piacergli, bensì il mio trepidante orgasmo per la musica. 

La mia personale visione di dio.

 

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

1 COMMENTO

  1. Che bello, gianCarlo, conosco, sono entrata anch’io in stanze proibite. In una, l’enorme salone di un antico istituto, c’era un pianoforte a coda Pleyel. Entravo senza chiedere, durante l’ora del refettorio, suonavo e tutto era mio.
    Ho trovato poi altri luoghi così, un piccolo teatrino nelle ore mattiniere, organi ndlle chiese…
    Grandi silenzi che mi appartenevano e che osavo abitare.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci qui il tuo nome