Francesco Sacco: «”Pioggia d’aprile” è stato un risveglio improvviso»

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Foto di Irma Ciccarelli

Si intitola Pioggia d’Aprile il nuovo singolo del cantautore milanese Francesco Sacco.

Un brano, specchio del flusso di coscienza, nato dalla voglia di smettere di soffocare e tornare a respirare.

In Pioggia d’aprile, naturale seguito del precedente album La voce umana, non mancano riferimenti culturali, caratteristica dell’autore, come quello al poeta persiano ʿUmar Khayyām, che prendono per mano chi ascolta conducendolo in una dimensione che va oltre all’apparente semplicità del testo.

Al mondo introspettivo di Francesco Sacco hanno partecipato gli storici colleghi Giacomo Zambelloni e Davide Andreoni, che hanno registrato e mixato il pezzo presso Everybody On The Shore, e Alessandro Deidda, storico batterista de Le Vibrazioni, per la registrazione della batteria. Mentre, la cover del brano è a cura del grafico Niccolò Pagni.   

Ci racconta tutto Francesco Sacco in questa video intervista.

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Francesco Sacco, l’intervista

Il tuo nuovo brano si intitola Pioggia d’aprile. Ci racconti come è nato? 

Il brano ha un tipo di scrittura fortemente autobiografica, un proseguo naturale di tutto quello che ho fatto con La voce umana (album precedente, ndr), ma con degli elementi diversi.

Ho vissuto una specie di crinale, di cesura, rispetto a quello al lavoro precedente: passare da un periodo iper-stimolato a uno di vuoto totale non ha aiutato inizialmente.

Questo brano è nato come sfogo, come risveglio improvviso, come quando stai sott’acqua tanto tempo e poi esci e dici: “ok, ci sono”.

Ho tenuto tutto dentro, fino a che, ad un certo punto, non ho rotto gli argini e rispolverato la voglia di raccontare quello che mi era successo.

L’avvenimento cardine è stato rileggere ʿUmar Khayyām, il poeta persiano che cito nel brano: ha interpretato il momento nonostante sia una voce molto lontana da noi, sia dal punto di vista temporale che geografico.

In questo momento storico,  gli artisti sono capaci di essere dei punti di riferimento?

Essere dei punti di riferimento è sicuramente una responsabilità molto grande e, a volte, è più semplicemente un dato di fatto.

Ad un certo punto, nella carriera, anche al di là della volontà, succede di essere preso a riferimento e questo comporta, in controparte, una grossa responsabilità e vedi il tuo auditorio che si allarga moltissimo.

Non credo particolarmente nell’arte come un messaggio, come una narrazione specifica: da lì all’arte di regime il passo è molto breve.

Quindi, non so se gli artisti siano o no capaci di essere dei riferimenti, a volte lo sono e hanno il compito, il peso e la bellezza di dare un po’ voce al tempo, in primis a loro stessi.

Poi, succede questa magia dell’identificazione di qualcuno che ascolta e dice: “anche io!”.

Lì scatta quel processo che crea  l’adesione all’opera d’arte e alla carriera di un artista.

Questo brano rappresenta un flusso di coscienza. Ma cosa significa avere coscienza?

Ciascuno ha sicuramente il proprio percorso per la presa di coscienza.

Nel mio caso, c’entra molto con l’introspezione, con il guardare dentro e mettere ordine o anche accettare il disordine che c’è nel proprio panorama interiore: devo guardarmi dentro e poi fuori.

Questo è un brano che parla anche di una serie di eventi che sono fuori dal mio controllo, ma li leggo e li rileggo partendo da dentro.

Il brano è stato scritto e composto da te, però hanno partecipato anche altri artisti: Giacomo Zambelloni, Davide Andreoni, Alessandro Deidda. Sono stati coinvolti altri flussi di coscienza, qual è stato il punto di incontro?

Giacomo e Davide sono i miei due storici collaboratori, che stimo molto e che coinvolgo in tutti i miei progetti.

Con Ale, invece,  è nata innanzitutto un’amicizia molto forte: ci siamo conosciuti e abbiamo iniziato a frequentarci nel privato. Lui è un musicista duro e puro, della vecchia scuola, di quelli che vive con lo strumento in mano, che dopo otto ore in studio torna a casa, e cosa fa? Suona.

Ho condiviso con lui del mio materiale, mi ha detto “bello il brano, mi piace molto, se ti va ti faccio la batteria”.

Una cosa bella che dice spesso Ale, che ha imparato in questi anni di carriera, è : “Quello che fai in studio è una versione del brano, non è il brano che ha mille, possibili, infinite versioni, quindi non impazzire”.

E come sei arrivato a questa versione? Cosa ti ha convinto ad incidere proprio questa? 

Devo dire che, un po’ per come è nato questo brano, è venuto naturale e ho deciso di non tradire lo spirito con cui l’ho scritto.

È stato molto veloce, immediato e impulsivo: dall’oggi al domani mi sono messo lì con carta e penna, chitarra acustica e ho messo insieme il brano. Quindi mi sembrava sensato andare in quella direzione.

Per darmi dei limiti ho scelto di prendere solo due giorni in studio, che è pochissimo per  fare un pezzo.

A volte, può essere complesso, specialmente per gli emergenti, avere più tempo in studio, ma in questo caso è stata una scelta precisa e fatta a monte, quindi mi sono volutamente tolto il tempo per riascoltare, pensare, ripensare il brano e prendere anche decisioni drastiche e importanti.

Nella versione demo, ad esempio, non c’era il pianoforte, ma  Giacomo ne ha appena preso uno bellissimo e abbiamo pensato “usiamolo, sta bene, teniamolo”, senza corsi, ricorsi e cambi d’idea sulla produzione.

Nel brano ci sono riferimenti a quella che è la sessualità e la sensualità femminile, che poi ritroviamo anche nella scelta della cover. Qual è il collegamento e come siete arrivati proprio a quel tipo di immagine?

La cover è un lavoro di Niccolò Pagni. , un grafico con cui ho collaborato anche in passato, specialmente su cose del collettivo Cult Of Magic di arti performative del quale faccio parte.

Abbiamo cercato di creare un percorso visuale simile a quello che viene fatto nel testo, che alla fine sta in piedi su un gioco di parole, su questa figura retorica di cambio semantico, per cui l’agente atmosferico, la pioggia di aprile, diventa un’altra cosa.

Lui è una persona molto intuitiva, per cui dopo  una chiacchierata su Zoom di un’oretta mi ha proposto questa idea, mi è piaciuta molto, mi ha parlato da subito di un riferimento visuale di Toilet Paper, di Maurizio Cattelan.

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Cover di Niccolò Pagni.

Ci sarà poi un album?

Sicuramente, questo sblocco avvenuto con La pioggia di aprile ha aperto la porta ad un sacco di nuovi brani.

Ho le mani su tantissimo materiale, ancora un po’ nebuloso, ma mi godo il momento, perché è un periodo di ricerca, molto stimolante.

Hai parlato di lunghi, o non lunghi, periodi di produzione, di investimenti che un artista fa. In questo periodo non siete per niente tutelati.

Sicuramente non è un periodo semplice, ma ha rilevato molte storture, perché già lo switch verso il digitale ha portato a una crisi molto grande, che di fatto ha reso possibile l’auto-sussistenza degli artisti solo o quasi solo attraverso i live.

Almeno che una persona non si metta a fare l’influencer, che però è un altro mestiere. Una cosa a cui spesso molti artisti sono costretti a venire a patti, perché sponsorizzare un brand paga più delle copie in digitale.

Fondamentalmente erano problemi che c’erano già prima e venendo a mancare i live ci sono persone con carriere più importanti della mia che hanno iniziato a insegnare, a fare altre cose, perché è abbastanza sdoganato, discusso e tristemente chiaro a tutti che il digitale non paghi neanche una pizza.

Ho sempre cercato di invitare il mio piccolo pubblico, anche in un articolo che ho scritto di recente, a comperare supporti fisici, perché è l’unico modo per dare sostegno concreto all’artista in una fase del genere.

Capisco che l’evento in streaming è la vacua riproduzione di una cosa che una volta era divertente e che in questo modo non lo è.

In questo momento parlo al pubblico, perché anche io, appena arrivato a Milano, andavo ai concerti, e non era una cosa secondaria andare lì, conoscere gente, bere, conoscere qualcuno, limonare sotto al palco. Fanno parte dell’esperienza all 80%, altrimenti ascolto un cd a casa.

Non si può nemmeno a fare una colpa al pubblico per il fatto che il live in streaming funzioni al 5%, anche se delle iniziative molto belle ci sono state.

Penso ad Andrea Laszlo De Simone in triennale con Miami, però è una. Se stasera guardo un live in streaming, il giorno dopo guardo Netflix, non mi guardo un altro live in streaming, mentre in una vita senza pandemia due concerti in settimana, piccolini, nei circolino vicino a casa, che esistono sempre meno, sempre legati a questa situazione, perché no me li faccio.

Se l’ingresso è 5 euro più tessera ARCI, me li faccio volentieri, vado lì, bevo qualcosa ed è il bello di queste piccole realtà.

Tante volte si andava anche senza essere interessati, senza conoscere la band, e si faceva una scoperta interessante, si pensava “ah questi qui non li ho mai sentiti, bravissimi, adesso li seguo”.

Penso a gente che ho visto, che poi è esplosa, come, credo nel 2009, gli MGMT davanti a 50 persone.

Miracoli che speriamo siano di nuovo possibili.

Ci sono anche delle chitarre e di recente hai collaborato con Gibson.

Sì, io sono fan delle Gibson da quando ho iniziato a suonare la chitarra acustica ed elettrica.

Il mio essere chitarrista passa molto dal blues, dal rock anni ’70, per cui Robert Johnson aveva la Gibson, Jimmy Paige ha la Les Pauls iconica, quindi sono molto legato anche a quell’immaginario.

Sicuramente è stato un grandissimo piacere poter collaborare con il marchio che mi ha dato la classica 390 semi acustica un po’ vecchio stile con pick-up p-90, una notizia che ho accolto con la felicità di un bambino a Natale: il me chitarrista di 14 anni che si spacca le dita sugli assoli dei Led Zeppelin è stato felicissimo, e anche il me adulto.

Cosa ti auguri, Francesco?

È sempre una domanda che mette in crisi questa dell’augurio perché è difficile e tutte le predizioni che ho fatto sono andate al contrario rispetto a come volevo, quindi ci penso tante volte prima di parlare.

Sicuramente mi auguro un futuro in cui la musica sta dove dovrebbe stare e viene normata, come qualsiasi ambito della vita, ma che non si ripeta quello che è successo a inizio pandemia: tutto il settore era invisibile.

Poi è stato ascoltato grazie ad iniziative molto forti e molto belle come Bauli in Piazza, La musica che gira, che hanno davvero messo gli enti, il governo, le istituzioni davanti al problema.

Mi auguro che non siano voci dimenticate, e che pian piano quando si cercherà di riaprire stando attenti a tenere in considerazione tutte le istanza che sono uscite in questo periodo.

Lato nostro, lato organizzatori, che ci sia un impegno per non scomparire di nuovo, che ognuno nel proprio piccolo faccia il possibile per sistemare cose che non funzionano troppo bene.

 

 

Classe 93, anno in cui David Bowie pubblica Black Tie White Nois. Campana di nascita, adottata dalla toscana Cortona (sì, la stessa di Jovanotti), da qualche anno vivo a Milano, di cui mi sono innamorata il 29 giugno del 2013. Perché ricordo la data? Perché a San Siro c’erano i Bon Jovi a infiammare il palco, ed io ero lì a sognare di intervistare la band. Ed eccomi qui: giornalista e studente di musicologia, il mio mantra è Long Live Rock, ma guai a chi disprezza i cantautori….e Beethoven (non il cane).

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