Riservato, forse un po’ timido, si descrive come uno che non ama apparire e che non è particolarmente bravo nelle public relation. È Taketo Gohara, producer tra i più interessanti e rinomati della scena musicale italiana e internazionale.
Non possiede profili social, anche questo un sintomo – forse – della sua innata riservatezza, ma ama il confronto con i giovani e per questo insegna loro le tecniche del suo mestiere e la passione che ci mette nel farlo.
La sua firma, che non si trova in rete, compare però sulle produzioni musicali maggiori e più famose dell’ultimo decennio. Tantissimi sono infatti gli artisti e i cantautori di successo che hanno deciso di affidargli i loro lavori: da Elisa a Biagio Antonacci, passando per Vinicio Capossela – con cui ha iniziato l’esperienza nel mondo dei big producendo Ovunque proteggi – e Brunori Sas con cui ha costruito un sodalizio artistico da Il cammino di Santiago in Taxi in poi. E tanti altri ancora.
Tra le ultime uscite a cui ha lavorato ci sono Semplice di Motta e Paesaggio dopo la battaglia, l’esordio da solista di Vasco Brondi. Due lavori che, per stessa ammissione degli autori, non sarebbero potuti essere gli album che sono senza Gohara, poiché è stato lui ad averli resi quanto più autentici e “puliti” nei suoni.
Taketo, in fondo, l’arte ce l’ha nel sangue: suo padre Yukio è un pittore, sua madre Hiroko una soprano. Lui ha ereditato il talento da ambedue le parti, l’ha elaborato a suo modo e oggi, per mestiere, disegna musica. E interpreta emozioni, cucendo alla perfezione addosso a ogni artista una veste che gli calzi a pennello.
Abbiamo intervistato Taketo Gohara che ci ha raccontato qualche curiosità sul suo lavoro.
In un’epoca storica in cui tanti tuoi colleghi amano sempre di più stare sotto i riflettori e i produttori spesso diventano protagonisti di esibizioni e/o album, tu preferisci restare sempre un po’ dietro le quinte. Come mai?
In realtà non c’è un motivo vero e proprio, devo dire che non mi interessa tanto apparire…poi il mio mestiere è portare proprio alla fama gli artisti! (Ride – ndr).
Oltre ad essere produttore sei un sound designer e un musicista. In che modo fai convivere queste diverse anime e qual è il ruolo in cui ti sentì più “al tuo posto”?
Diciamo che queste figure si mischiano di continuo nei vari ambiti: che sia musica, cinema o arte. Penso sempre di essere fortunato a fare questo mestiere perché lavorare con musicisti e artisti straordinari è come avere un mago sempre davanti a te che ti fa le magie. Il sogno di ogni bambino: lo stupore è sempre dietro l’angolo!
Hai parlato di cinema. Tu hai lavorato anche nel cinema, sempre curando l’ambito del sonoro, come si approccia un professionista come te a questa arte differente? È un mondo che ti appartiene meno rispetto all’ambito musicale in senso stretto?
Quando lavori a un film devi musicare l’intento e l’emozione della storia. Sei al servizio della sceneggiatura. Ma per me è un po’ la stessa cosa anche quando lavoro per un disco. In quel caso è come se l’artista fosse la sceneggiatura: cerco di capire cosa vorrebbe esprimere realmente e come lo vorrebbe esternare. Il mio mestiere è prima di tutto capire profondamente i sentimenti, le paure e i sogni di ogni artista.
Vinicio Capossela, Brunori Sas, Motta, Elisa, Vasco Brondi, Biagio Antonacci sono solo alcuni dei nomi di artisti che hai prodotto negli ultimi anni. La scelta sembra sempre ricadere su un certo tipo di cantautorato, se vogliamo, anche un po’ impegnato e “di livello”. C’è un filo conduttore che ti lega ad artisti che – in qualche modo – si assomigliano nello stile e ti fa scegliere di lavorare con loro?
Per fortuna per ora mi hanno scelto sempre gli artisti, non sono uno mondano, né bravo a fare pubbliche relazioni…quindi quando non mi cercherà più nessuno non so cosa farò! (sorride – ndr). È vero alla fine, però, che la maggioranza delle mie produzioni ricadono sui cantautori. Caso o coincidenza? Chi lo sa, forse è perché sono attratto dal racconto vissuto più che da una interpretazione.
Che tipo di rapporto si crea con gli artisti con cui lavori? Come ti approcci a quello che hanno già “pronto” e chi detta la linea in studio?
Ogni artista vive, pensa e reagisce in modo totalmente differente. Proprio per questo non c’è mai un metodo consolidato per affrontare un disco o un film. Anche questo è il bello del mio mestiere, che è ancora molto artigianale. Ci sono artisti che arrivano solo con una parte di canzone arrangiata in modo semplice con chitarra e voce e altri che arrivano con il disco già pronto. Ci sono artisti che hanno già un concept e per altri, invece, il concept stesso nasce durante la lavorazione. Ogni volta è diverso. Si discute molto, si diventa empatici, si fanno un sacco di ragionamenti e cerchiamo ispirazioni. Cerco di dare sempre molte soluzioni, sono una specie di Grillo parlante! Però alla fine è sempre l’artista che decide.
Sei anche un insegnante allo IED, al Centro professione musica e fai varie masterclass sulla produzione musicale. Continui a lavorare con i giovani perché questo resta per te uno stimolo? Vivi questo tuo ruolo come una sorta di “talent scout”?
Si, amo insegnare perché mi piace stare a contatto con i ragazzi. Mi tengono giovane. E soprattutto vorrei trasmettergli la passione che ho per il mio mestiere e che ci vuole per farlo. Penso sia molto importante tramandare ogni mestiere. Il ruolo dell’educatore è fondamentale, ora è difficile che la classe dirigente musicale contemporanea proponga musica alternativa. In radio per esempio vengono proposti solo copie di copie, dove anche il messaggio è solo improntato sulla bellezza e la ricchezza.
A proposito di Talent sei stato nella squadra di Mika a X-Factor, come cambia il lavoro di produttore musicale in un contesto televisivo rispetto alla normalità? Anche considerato che i tempi di un programma sono molto brevi rispetto invece alla produzione in studio di un album che richiede tempistiche molto più lunghe…
È stato molto divertente lavorare a X- Factor. Noi avevamo gli Over…quelli vecchi in pratica! (sorride – ndr). In questo X-Factor non c’è stata poi una grande differenza rispetto al mio solito lavoro perché i ragazzi della mia squadra scrivevano da soli le loro canzoni. Quindi c’era molta interazione con loro. Generalmente cerco sempre di coinvolgere l’artista. Ecco, quando lavoravamo sulle cover invece – cosa che faccio poco – era difficile calibrarsi e non rovinare l’originale.
Quasi tutti gli artisti molto giovani che oggi consideriamo “big” – penso subito ai Maneskin, Francesca Michielin, Gaia – arrivano dai talent show. Da insegnante e addetto del mestiere pensi che i talent siano oggi l’unico mezzo per emergere e arrivare davvero al grande pubblico?
Assolutamente no…ma i tempi cambiano, ci sono meno posti in cui suonare. Esistono però ancora realtà musicali che partono dalle sale prova e poi approdano a concertini in giro nei peggiori bar d’Italia. E – anno dopo anno – per fortuna sono riconosciuti sempre di più. Capisco il desiderio di farsi conoscere il prima possibile dal grande pubblico, ma penso che principalmente chi fa musica non lo faccia per la fama o per i soldi, ma per necessità. Una specie di cura per se stessi che diventa cura poi per gli ascoltatori.
La domanda è d’obbligo: cosa ne pensi del modo in cui la politica ha gestito il settore dei lavoratori dello spettacolo, soprattutto chi sta dietro le quinte, nel corso dell’emergenza pandemica?
È stato un anno duro, penso per tutti non solo per la nostra categoria. L’Italia è una delle culle dell’arte e anche della musica. Dovrebbe salvaguardare i lavoratori dell’arte quanto quelli del mondo del calcio, per esempio. Confrontandomi con colleghi francesi vedevo che loro avevano più sostegno dal governo, invece in Inghilterra e America molti hanno addirittura iniziato a fare altri lavori perché la situazione era simile all’Italia. Ci vorrebbe un sindacato apposito che tuteli la nostra categoria.
E sui live? Come vedi il futuro immediato nell’era post-Covid?
Sono sincero: per ora purtroppo la vedo ancora buia…speriamo di poter tornare presto a far veri concerti.