Venezia 78. America Latina

Un film attentissimo alle luci per una discesa nel buio della mente

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Il dentista Massimo (Elio Germano) vive a Latina in una villa dalla facciata concava e dai colori balneari con piscina. Gli interni sono cupi, tristi. Nel niente, tra le paludi, le centrali nucleari dismesse, in un territorio reso graficamente come una geometria ossessiva. Ogni tanto lo vediamo alle prese con i clienti nello studio, ogni tanto in scene di inquieta quiete famigliare con moglie e figlie, ogni tanto alle prese con un amico compagno di bevute, di cui ha una percezione incerta. Poi un  giorno scende in cantina a cercare una lampadina e lì, legata a un palo e imbavagliata, c’è una ragazza sequestrata. Da chi? Quando? Il dentista non si capacita, ma capiamo che l’equilibrio da inquieto passa radidamente a fragile e poi di segno in segno a catastrofico. E la cantina sembra l’epicentro del dramma trattenuto, fino a che, dopo averlo detto che la cantina era allagata per tenere lontano la famiglia, il dentista fa saltare una tubatura. E l’acqua sale quasi fino a sommergere la sequestrata. Vogliamo dire che l’inconscio allaga il film? Tutte le opzioni sono aperte: Massimo è fuso, dissociato, allucinato, pazzo, forse è un killer, forse è un sequestratore, forse è entrato in un altro mondo tutto fatto di rimorsi e aggressività da contenere. Dai gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo un’altra favolaccia con una speciale attenzione alla luce

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