gianCarlo Onorato: la Bellezza tra condivisione e infinita ricerca (intervista)

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Giancarlo Onorato

gianCarlo Onorato è quel genere di multiforme ingegno al quale la parola “artista” non riesce a render piena giustizia per limitata capienza: cantautore, poeta, scrittore e pittore, Onorato ha la capacità rara di dare forma plastica al pensiero, operando la transizione tra intimo sentire e sostanza artistica senza smarrire, nel processo, un’oncia di sincerità e di profondità d’indagine. Spiazzante e crudo, aulico e carnale, cupo e vivido, l’ordito che tesse con le sue parole si presenta con intrecci complessi e suggestivi, e s’arricchisce con sottotrame dalle tinte calde e vive, a creare una sintesi perfetta, non solo dal punto di vista stilistico, ma soprattutto emozionale, tra aspirazioni verso l’Alto e ispirazioni verso l’altro così da ribadire il valore inestimabile e salvifico della quotidiana, autentica, profonda condivisione.

Curatore del blog Fondale, ospitato sulle nostre pagine, lo scorso 5 maggio gianCarlo ha pubblicato Fondale – Paranormalità elettive tra musica, cinema e affini (Alter Ego), settimo capitolo della sua già ricca produzione letteraria; prima di esso sono arrivati Filosofia dell’aria (1988), L’officina dei gemiti (1993), L’ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), Ex – semi di musica vivifica (2013; 2020) e La formazione dello scrittore, (2015) . Queste le parole con le quali il saggio, con la prefazione di Ezio Guaitamacchi e a postfazione di Marco Candida, viene presentato:“Il lavoro di Onorato non converge con l’aneddotica e la ricerca del punto di vista condivisibile. È un tratto marcato col fuoco dell’urgenza, della volontà di attualizzare le voci inascoltate o fraintese dei profeti dell’arte e del pensiero. Li trovate riuniti in un coro sommesso, una seduta spiritica luminosa di racconti e riflessioni che infilano i vicoli bui di Lou Reed, l’intrinseca purezza di Pasolini, ma anche l’immediata felicità di un brano di Chico Buarque contrapposta a un austero convegno filosofico e poi ricongiunta alla vitalità eterna di Emanuele Severino. C’è spazio per l’indole irriducibile di Freak Antoni, lo sterminato universo di Syd Barrett e un John Lennon alle prese con la vacuità del vil danaro. Nuotateci come vi pare. Il fondale è ampio, imprevedibile, ricco di anfratti nebulosi, di colpi di luce e apparizioni, ma accogliente per qualunque anima disposta a fare i conti con se stessa”.

Nella nostra intervista, abbiamo diffusamente indagato l’universo-pensiero dell’artista, al quale abbiamo chiesto di guidarci nella sua filosofia dell’arte e della bellezza, e di preconizzarci — non con l’astratta furbizia di un veggente, ma con la concreta sensibilità di un attento osservatore d’anime — la destinazione d’uso delle parole e dell’umanità in questa contemporanea Torre di Babele di artificalità e cinismo.

LA NOSTRA INTERVISTA

Giancarlo Onorato

Come si è avvicinato alla musica, e in risposta a quale esigenza espressiva o emotiva?
Ho cominciato il mio percorso con la musica da adolescente — praticamente, frequentavo ancora la scuola dell’obbligo: sono stato quello che si dice un ragazzo molto precoce — e a 17 anni avevo già la mia formazione, che nel giro di un anno e mezzo sarebbe diventata una formazione di culto per la musica di ricerca, per il rock coniugato alle arti visive, alla pittura, alla letteratura. Abbiamo fatto un percorso contromano nella cultura italiana, insieme a poche altre formazioni, quindi per me l’approccio è stato fin da subito un rispondere a ciò che nella scuola, nelle istituzioni mancava profondamente: la cura, l’attenzione nei confronti delle esigenze dell’individuo che vanno oltre quelle che sono le offerte istituzionali. Recentemente, nel corso di un concerto, ho avuto modo di dire che se c’è una summa di quel che ho fatto nel mio lavoro, è stata il trovarmi a costruire ciò che non era stato già fatto. Vale a dire che ci sono cose che tu non trovi offerte in maniera qualificata e compiuta rispetto alla tua necessità — la mia era quella di conoscenza — e allora cerchi di fartele con le tue mani. Il mio è stato un percorso da autodidatta, e proprio perché fuori dagli schemi, ho dovuto lavorare molto di più per conseguire il risultato che secondo me sempre dovrebbe esserci in una formazione, e che purtroppo negli ultimi anni ci è stato in parte negato: l’attenzione al senso della disciplina, all’approfondimento, al nutrimento che viene dalla conoscenza, il che nel nostro Paese è il grande fallimento della scuola attuale. La musica per me è stata quindi fuga dalla scuola ufficiale e sposalizio di una causa sempre in divenire, votata alla più spuria e squisita ricerca dell’Arte in sé. In realtà io sono un “fuori dal coro” nella cultura italiana proprio perché, avendo perseguito questo e non avendo perseguito alcun profitto o necessità di carriera, giocoforza mi sono ritrovato a vivere un mio percorso alternativo rispetto a chi ricerca visibilità, a chi desidera mettersi in mostra. Questa è stata un po’ la costante, che mi ha accompagnato dagli inizi fino a oggi.

Quali sono stati i maestri di riferimento e gli ascolti che hanno informato la prima fase del suo percorso artistico?
Sono solito dire che il vero maestro è colui che non sa di esserlo, che persegue lo scopo in modo così limpido e determinato da divenire suo malgrado maestro. Di maestri ne ho incontrati in tantissimi campi, ed erano appunto “naturali” perché non sapevano di esserlo né si ponevano come tali. Da adolescente sono stato fulminato dall’esperienza che metteva insieme letteratura, arte figurativa, poesia, cinema d’avanguardia e canzone popolare, cioè quella di Lou Reed e dei suoi Velvet Undergound attorno al fulcro pensante, al sole di Andy Warhol che metteva insieme sia i disperati, sia le eccellenze, ed è stato quel passaggio, dalla metà degli anni ’60 ai ’70, in cui l’intellighenzia, la cultura d’élite, salottiera, accademica, ha ricevuto un colpo importante da parte di coloro, come questi, che hanno saputo portare “in strada” quel che invece era una dimensione più museale delle arti, più imbalsamata, eccessivamente sacralizzata delle arti. Esser venuto a contatto con questo tipo di filosofia mi ha dato la conferma di ciò che pensavo: con il mio professore di filosofia c’era un battibecco continuo, perché lui mi diceva «Rispondi alle domande che ti fanno, fai il tuo corso di studi anche fesso perché comunque in società ti servirà», e io gli  rispondevoche a me non interessa il titolo per il titolo, ma la filosofia per il percorso in sé, in quanto arricchimento di conoscenza. La filosofia dell’underground, che ha rappresentato la svolta epocale nelle arti figurative sdoganando l’arte “alta” mettendola a confronto con la realtà quotidiana, in Italia è stata condotta dal nostro Pasolini: prendere un tema e un contenuto estremamemte alti, elettivi, e saperli porre in contatto diretto con la strada, con quella che è l’esperienza più umanamente semplificata, semplice, cogliendo nella semplicità la verità umana che è l’unica base sulla quale si può fondare una realtà artistica. L’arte non ha senso se non è una autentica testimonianza della verità umana, altrimenti diventa vezzo, un atteggiamento masturbatorio fine a se stesso, il piacere di esibire una erudizione che non viene scambiata, viene solo posta in circolo in ambienti circoscritti. L’arte non è tale se non è condivisa e, secondo un principio squisitamente scientifico, rimessa in discussione costantemente tramite il contatto con la realtà umana, che per sua natura è in continuo divenire.

Leggendo i suoi scritti, è impossibile non restare colpiti dal suo associare la concretizzazione dell’ispirazione, sia essa musicale, letteraria o visiva, alla carnalità: dove si colloca il punto d’incontro tra l’estasi artistica e quella dei sensi?
Se torniamo sempre a un discorso di conoscenza, se sappiamo assolvere all semplicissima osservazione che vivere è un fatto conoscitivo progressivo e continuo, e assunto quindi che la conoscenza è alla base di qualunque esperienza sensibile umana, l’erotismo si configura sostanzialmente come esigenza fisiologica di scambio, di unione, di commistione, di miscelazione chimica, fisica e spirituale con il mondo. Quindi, in quest’ottica, la mia lettura dell’esperienza artistica e, se permette, anche scientifica — io non separo affatto scienza e arte, penso che l’arte sia infatti solo uno degli aspetti conoscitivi, quello di base, dal quale sono scaturiti gli altri — è l’incontro, in tutte le sue sfaccettature. Nel 2017 ho dedicato un disco, “Quantum”, espressamente all’incontro, sia benevolo che non esattamente benevolo, dal quale si generano altre cose. Se ci pensiamo, nella vita tutto ciò che conosciamo è frutto dell’incontro tra due o più elementi, che generano la realtà così come noi la conosciamo. Se vogliamo fare una lettura davvero più animista, e considerare il concetto di vita esteso a tutto ciò che è lo scibile, non possiamo non renderci conto che anche nella più piccola parte della materia vi è sia una connotazione erotica, nel senso di commistione, incontro, conoscenza, sia una componente spiriturale intesa come continua aspirazione all’origine delle cose, che non è indagabile, ma è esperibile direttamente nell’atto conoscitivo stesso, compreso l’atto erotico. Già le Scritture parlano di conoscenza riferendosi all’unione sessuale, quindi sono temi cari alle più antiche tradizioni culturali e di pensiero che oggi noi, secondo me, avremmo il dovere di riprendere, perché la nostra contemporaneità è giunta a un livello di saturazione di tutti i dati e di tutti i portati, che può trovare un ordine solo se riusciamo a tornare all’essenzialità dei dati stessi e a valutarli in maniera più profondamente spirituale, dunque erotica. Apro una piccolissima parentesi di natura estetica: se noi diamo un’occhiata a tutta l’iconografia sacra, tanto occidentale quanto orientale, notiamo che il santo, il benedetto, l’illuminato, il martire, la Beata Vergine, sono sempre dotati di un’aura e di una luce profondamente erotiche. L’estasi mistica è profondamente erotica, non in senso strettamente carnale, ma in senso conoscitivo allargato che contempla anche, in una certa misura, il corpo, il quale non può essere escluso da nessuna esperienza sensibile. Noi siamo corpo pensante, e tutto ciò che ci riguarda è una conoscenza che passa dal corpo ma anche dotata di altri portati. Pensiamo che la santità debba essere astratta dall’esperienza fisica, e ci sbagliamo clamorosamente: è solo un altro livello di conoscenza carnale, ma sempre parliamo di erotismo. 

Mi ricollego a queste sue riflessioni per porle una domanda specifica: come descriverebbe più approfonditamente il rapporto tra scienza e arte, spesso considerate antipodiche?
L’artista sostanzialmente, nel profondo, è un osservatore, è il bambino che, come dicevamo prima, sapeva essere anche Pasolini… il bambino che fa esperienza spuria prima di aggiungere sovrastrutture, e perciò non si pone limiti nel suo approccio esplorativo. La scienza non è nient’altro che la stessa cosa, ma con una finalità più utilitaristica: mentre l’atto dell’artista parte e finisce in sé e per sé e poi si offre come soggettivazione che diventa oggettivazione, cioè diventa universale quando condiviso con gli altri, la scienza ha esattamente le stesse caratteristiche ma con una finalità più rivelata, più affermata, più socialmente accordata. Se abbiamo bisogno, come società, di fare degli avanzamenti, è più facile che guarderemo a un pensiero scientifico, inteso come atto di ricerca del bene per il singolo e per tutti in una accezione più sociale, mentre l’operazione artistica è più vissuta in una dimensione solipsistica, non egoistica ma soggettiva, non necessariamente utile per tutti. Anche in questo caso, basta fare un piccolo passo indietro per accorgersi che tempo fa, quando non c’erano ripartizioni nette e manichee tra il pensiero scientifico, poi diventato scientista, e quello poetico-filosofico, colui che affrontava l’esperienza conoscitiva era naturalmente, per suo slancio personale e per appartenenza intima alla conoscenza, era al tempo stesso un esploratore creativo e artistico, ma anche scientifico. In Italia, noi abbiamo come esempio massimo Leonardo da Vinci, ma non soltanto lui: Leonardo agiva in un’epoca nella quale un artista era anche artigiano, anche manovale. Questa differenza così brutale che noi viviamo oggi tra ciò che dovrebbe essere artistico e ciò che dovrebbe essere scientifico è soltanto l’errore nel quale ci siamo imbattuti assegnando al pensiero scientifico un valore di verità assoluta e inconfutabile, mentre il pensiero artistico sarebbe confutabile in quanto soggettivo. Errore radicale che ha fatto sì che buona parte della società attuale si sia persa tanto del bene che può venire dalle arti: per esempio, la loro azione terapeutica, che sappiamo vedere in tutte le discipline collegate all’infanzia, la disconosciamo poi quando parliamo degli adulti, pensando che abbiano bisogno solo delle medicine e di interventi fisici, ma in realtà è palese che il pensiero non finito, quale è il pensiero creativo e artistico, abbia un enorme valore terapeutico. In sintesi, credo che si tratti soltanto di una errata assegnazione del valore di verità assoluta, comprovata e verificabile in laboratorio a quella scientifica, e di verità soggettiva, e pertanto non universalizzabile, che si accredita all’artista. Chiudo dicendo che tutta la nuova frontiera delle neuroscienze e dell’analisi della dimensione infinitesimale, quantica, quando indaga il funzionamento più specializzato dei nostri apparati, si rende conto facilmente di quanto in quegli ambiti ciò che è sensibilmente bello influenza il nostro modo di essere, e addirittura lo stesso DNA. Tutte queste frontiere stanno lentamente per essere abbattute, ma ci vuole del tempo: oggi abbiamo ancora bisogno di ragionare in termini di 1 e 0, bianco e nero, positivo e negativo, e perciò facciamo ancora fatica a immergerci in quello sfumato in cui tutto ha un’appartenenza. ma anche in questo caso sarebbe sufficiente dare un’occhiata al pensiero plurimillenario dell’Oriente per vedere quanto la fenomenologia che riportiamo a eventi scientifici e quella squisitamente poetico-animistica siano la stessa cosa.

Nella creazione artistica la soggettività sembra avere un ruolo precipuo, dal momento che l’artista, a prescindere dalla forma espressiva scelta, sempre racconta di una sua esperienza: è sufficiente essere il più sinceri possibile perché questa esperienza soggettiva diventi universale?
Qui entriamo in un campo più specifico: dobbiamo assumere che l’artista non esiste, non è un elemento eletto che sappia o abbia saputo fare cose che altri non sanno fare: l’artista è una cosa che chiunque avrebbe potuto fare se il suo percorso di vita glielo avesse concesso. Dobbiamo abbattere questa discriminazione: sa, noi oscilliamo tra una visione un po’ discriminatoria dell’artista come sovvertitore di schemi e regole, e una sacralizzazione eccessiva, come si parlasse di una figura irraggiungibile. Tutti siamo potenzialmente artisti, pochissimi di noi hanno il coraggio di affrontare la dimensione integrale dell’arte, o meglio, l’arte come domanda totale alla quale la risposta è sempre un divenire, e quindi espone a un continuo sforzo e a una continua insicurezza. Credo sia questo che spaventa e che distingue l’uomo “comune” dall’artista, dal ricercatore, dal conoscitore. Ma quando la verità umana è colta in maniera non sovrastrutturata, ma profondamente votata a un atto di pura conoscenza, come appunto quella di un bambino, siamo in presenza di un fatto artistico in quanto universalizzabile. L’arte, in sostanza, non è altro che uno slancio umano, secondo precise vie che abbiamo sperimentato nel corso del tempo, il cui risultato è in grado di rivelare alla collettività la potenza della soggettività. È quel punto in cui soggettivo e collettivo si fondono e si confondono, e quindi chiunque può, volendo, identificarsi e sostituirsi alla soggettività di colui che ha creato, tant’è vero che l’arte non avrebbe ragione d’esistere se non fosse compresa: io non posso essere qualificato come artista se nessuno può intendere ciò che faccio. Dal momento in cui anche solo tre, anche solo cinque persone intendono ciò che faccio e vi si immedesimano, ho operato un processo di fusione tra la mia dimensione soggettiva e la dimensione del collettivo potenziale. Venendo alla mia esperienza, sebbene io lavori da molti anni, sono abbastanza ignoto al grande pubblico, ma la cosa non mi ha mai preoccupato perché continuamente nella mia vita ho ricevuto conferme e testimonianze di quanto ciò che faccio riesca a essere potenzialmente universalizzabile, e quindi ho già “vinto”. Il successo è proprio lo scambio continuo col mondo, mentre l’insuccesso è la totale alienazione dal mondo tanto da un punti di vista umano, quanto contenutistico. Penso perciò che la barriera tra il soggettivo e l’universale sia abbattuta soltanto dalla squisitezza e dalla profonda verità dell’operazione in sé, quindi è vero che se io sono soltanto abile a comunicare, posso diventare un uomo di successo perché ho trovato la chiave per generare quel successo, ma non è detto che io sia un artista, mentre sarò un artista veramente profondo se, pur non accedendo a un grande pubblico, coloro che entreranno in contatto con ciò che faccio troveranno un modo per identificarvisi. 

In uno dei suo scritti per Spettakolo, lei definisce quella della Bellezza una ricerca costante: come descriverebbe, invece, la Bellezza in sé? Direbbe che a oggi è riuscito a imprigionarne un piccolo frammento in una delle sue opere?
La Bellezza è un dato conoscibile e in divenire e, in quanto tale, a mio modo di vedere non è mai cristallizzabile in qualcosa, in un momento, ma è nel divenire stesso che viene colta. Se dovessimo proprio addivenire a una definizione, dovremmo dire che “bello è ciò che è bene per me ed è bene anche per te”, quindi travalica quella che è la dimensione puramente estetica; la Bellezza è anche in un atto politico, per esempio: non può essere bello un atto che privilegia qualcuno e prevarica qualcun altro. Bellezza è per me, dunque, condivisione di bene, tanto è vero che l’esperienza di condivisione di un bene — sia esso un affetto, un’attrazione importante, di qualunque natura essa sia — accade sempre quando da due o più parti scatta quella gratitudine tipica di chi riceve e sente il bisogno di restituire: quando sono di fronte a un dipinto che magnifica un mio sentimento, ecco, in quel caso si tratta di una emanazione di un altro individuo che mi ha dato la possibilità di far scattare in me quella magnificazione. Va anche detto che l’opera d’arte è il fruitore: senza il fruitore, l’opera d’arte sarebbe semplicemente un oggetto: anche un’opera in divenire come un film, senza qualcuno che ne fruisca non ha compiutezza. Detto ciò, io credo che l’opera di chi lavora con le idee, come faccio io, non abbia in sé una vetta individuabile come assoluta, ma una soggettiva sì;  si immagini di avere a che fare con una persona che lei ama molto: non potrebbe dire cosa più ama di questa persona, ma è l’insieme del suo essere che le fa provare, probabilmente in maniera sempre rinnovata, un sentimento d’amore. Quindi, se valuto ciò che ho fatto io fin qui, in un certo particolare momento avrò preferenza per un aspetto piuttosto che per un altro, ma in sostanza se vi è Bellezza, vi è poetica, e se vi è poetica, vi è Bellezza. Ecco perché la fruizione del bene e della Bellezza è frutto di un lavoro, e non può mai essere condotto in modo superficiale, deve per forza richiedere un approfondimento, uno scavo. Il che è anche la ragione per la quale stiamo così tanto male: perché la maggior parte di noi  non ha alcuna voglia o è stato condizionato a non fare un lavoro in profondità, e rimane perciò bello acquattato soltanto in superficie.

Perché, secondo lei, c’è così tanto timore di guardarsi dentro, quando in realtà guardarci dentro potrebbe dimostrarci che assomigliamo gli uni agli altri molto più di quanto immaginiamo?
Credo che la paura di guardasi dentro sia atavica, ancestrale. Tendenzialmente, guardarsi dentro vuol dire poter incontrare un profondo spavento di fronte a qualcosa che non va, e per sistemare la quale ci sarebbe richiesto un grande lavoro, partendo dal sopportare l’ansia e lo smarrimento che nascono dal trovarsi al cospetto di un errore. Questo vale anche in senso molto pratico: tante persone, per esempio, non fanno un esame approfondito del proprio stato di salute per timore di incontrare qualcosa che non va, e come si può capire, è una cosa molto illogica, perché non si può risolvere un problema se se ne ignora l’esistenza. Quindi, la paura che noi opponiamo allo scavo interiore è la paura ancestrale del grande lavoro che occorre, che sarebbe poi lo scopo della vita: in sostanza, credo che vivere sia appunto un’esperienza di grande impegno. Devi avere consapevolezza che ti è stato consegnato un accadimento unico, irripetibile, e che perciò avresti il dovere di occupartene e di esplorarlo. La maggior parte di noi preferisce la scorciatoia di dettati da seguire pedissequamente proprio per paura: la paura di un lavoro radicale, profondo, continuo, che non porta mai a un risultato concreto. Non posso mai spalare il mare, ma continuare a occuparsi di sé è un processo migliorativo costante che è il senso stesso del vivere bene.

Da persona profondamente innamorata della parola, ammiro altrettanto profondamente l’utilizzo che lei ne fa, aulico e insieme concreto: come cambia — se cambia — questo strumento a seconda che venga utilizzato nell’ambito di una canzone, di una poesia o di un romanzo?
La parola ha un potere enorme. Col tempo, abbiamo eletto in essa l’interpretazione e il messaggio del mondo. E il suo effetto è molto più forte di quanto noi si sia disposti a credere. Siccome ci sono dei limiti nella parola stessa — limiti che non ci sono, per esempio, nel linguaggio dello sguardo o in generale in quello fisico —, dovendo scendere in questo campo dobbiamo saper cogliere i contesti all’interno dei quali noi facciamo calare l’oggetto parola: per quanto mi riguarda, cerco di assegnare uno sposalizio emozionale e lirico, e pertanto è un fatto musicale il significato stesso della parola collocato nella frase musicale in cui si va a incastrare. Ma non è un discorso a tavolino, sebbene spesso si immagini che lo sia: è solo un discorso di “poiesis”, dell’atto generativo che trova la sua direzione nel momento in cui sta sgorgando. Altrimenti, semplicemente, non sgorga: non puoi metterti lì a cesellare e a scegliere “questa parola sì e quest’altra no”; si può tuttavia, in un contesto più prosaico la cui finalità sia essere più chiari, più semplificati, più diretti, tener presente che la parola deve avere una funzione più didattica o più tecnica: si tratta, in quel caso, di fare una miscela il più sensibile possibile tra ciò che è la scelta tecnica del linguaggio e quel che è lo scopo. La finalità del messaggio, però, è sempre ciò che conduce alla scelta del mezzo stesso, ciò che mi insegna quale sarà la gradazione del linguaggio da utilizzare. Approfitto di questa sua domanda per sottolineare che c’è anche un’altra grande confusione retorica che si è instaurata da tanto tempo, ed è il confondere la canzone con la poesia, laddove la poesia è elezione massima della parola e del connubio tra le parole, ed è sempre un fatto squisitamente musicale anche quando vuole essere totale allontanamento dal ritmo, anche quando vuole essere disarmonica. La canzone è una dimensione molto a sé, quando è canzone autentica: è chiaro che, quando viene intesa come un dispositivo per ottenere il consenso, siamo da un’altra parte, e diventa un discorso puramente opportunistico anche la scelta tecnica delle parole stesse. Quando invece la produzione di pensiero musicale nella canzone è assolutamente priva di altre finalità che non siano quelle della ricerca, ancorché condizionata dal vissuto emozionale, culturale e storico di chi opera e dalle sue suggestioni, allora quel che viene fuori, viene fuori naturalmente ben armonizzato tra ciò che è melodia e ciò che è contenuto, perfettamente sposati. C’è poi la dimensione del  racconto lungo, tra cui anche il romanzo: è la complessità delle varie parti di cui si compone l’elaborato che non deve perdere di vista la risonanza, che è la finalità stessa per cui è stata concepita, ovvero l’ispirazione: quando scrivo, tengo sempre presente che, sebbene le pagine siano diverse, al lettore deve arrivare l’accordo che mi ha motivato ed è anche la dimostrazione alla quale si vuole arrivare. 

Quindi, nel momento nel quale si risponde a una necessità comunicativa, l’artista o lo scrittore producono in una forma già compiuta, o decidono di organizzare il pensiero in una forma?
La risposta è che producono già in una forma, perché, a mio modo di vedere, la forma è il contenuto. Non si possono fare degli elaborati secondo dei cliché prestabiliti, a meno che non abbiano, appunto, una finalità meno autentica e più mercantile. Se invece io mi pongo di fronte a me stesso e non ho il condizionamento di quante copie venderò, se le venderò, se pubblicherò, allora sono veramente libero e quindi devo soltanto lasciarmi andare e lasciar sgorgare, con la certezza che le parole saranno perfettamente in sintonia e vibrazione col contenuto che avevo in mente. Quando tu hai un’idea artistica, non hai mai idea del modo in cui la renderai, ma hai molto chiaro, come slancio complessivo,  cosa vorresti riuscire a comunicare. E lungo il percorso trovi il modo per raggiungere quell’affresco, quel disegno finale. Quella è la poetica, che ha per forza di cose una sua connotazione naturale: personalmente, nego che vi debba essere una ricerca che non sia profondamente risonante con quello che è il sigificato stesso dell’opera. Mi son trovato a scrivere dei testi il cui linguaggio sgorgava esattamente in sintonia con tutta l’architettura dello scritto: il pensiero dominante di una trattazione genera la scelta delle parole e della strada per presentarlo.

Ritiene che in un mondo come quello di oggi, nel quale si aprono costantemente dibattiti sul politicamente corretto, la parola possa ancora rappresentare il più radicale tra gli strumenti di protesta e di cambiamento?
Trovo che la parola stia subendo un processo simile a quello dell’immagine e della produzione di pensiero: se da una parte quest’ultima ha vissuto una accelerazione verso una apparente democraticizzazione, in realtà tale svolta ha contribuito ad annacquare parecchio, a rendere molto molto contrita la quantità di pensiero autentico. Se dovessimo fare un raffronto tra la produzione di pensiero quando si pubblicava un milione di volte meno di quanto si faccia oggi, non è che alla minore produzione corrispondesse minore qualità, mentre l’esatto opposto avviene nei tempi attuali. Ma è un cambiamento epocale al quale non possiamo sottrarci. Platone sosteneva che fosse un pericolo la possibile deposizione per iscritto di un pensiero, perché la forza di un pensiero a suo dire si trasmetteva soprattutto da persona a persona, come verità umana: se la sigillo in un qualunque elaborato e penso che quello sia il modo per salvarla, non faccio nient’altro che archiviarla in modo tale che purtroppo tutti, pensando di possederla già, non la consulteranno più. Questo è il tragico problema di Internet, per esempio. Una piccola biblioteca i cui testi siano stati per me davvero penetrati e affrontati vale un milione di volte più della più grande e universale delle biblioteche che non consulta mai nessuno. Quindi penso che la vacuità di cui soffriamo oggi sia proprio nel numero spropistato di proposte che abbiamo, e questa vastità non solo causa disaffezione e disincanto, ma per forza di cose l’urgenza stessa di dover produrre in continuazione per esserci, per esser visti, per esistere, annacqua la qualità.  Per quanto mi riguarda, sono sempre molto pù affascinato da un distillato che da un allagamento.

Spostiamoci dalla parola all’arte pittorica: il quadro, nel suo fare arte, è la concretizzazione di quale genere di spinta emotiva?
Sono nato creativamente come pittore, nel senso che la prima cosa che ho fatto da ragazzino è stata cimentarmi con una disciplina figurativa. Poi questa cosa è stata surclassata completamente dalla musica: quando è arrivata nella mia vita, ho capito che era una sintesi straordinaria perché mi proponeva anche lìimmagine, una immagine non visibile ma… immaginabile, appunto, visionabile in una dimensione più astratta. La paesaggistica che si spalancava davanti ai miei occhi non soltanto nella produzione musicale ma anche nella sua fruzione era talmente urgente e importante che ha sbaragliato l’attenzione che potevo dare alla pittura. Quando poi mi sono reso conto che ogni singola disciplina, di per sé, è soltanto un modo diverso per dire la stessa cosa, ho capito che puoi sentire l’esigenza di nutrirti o di offrirti in maniera diversa, e lo puoi fare se non hai altra finalità a parte l’espressione. Ed è ciò che ho fatto io: vengo definito pittore perché ho una produzione pittorica, ma, così come dico per la poesia, la pittura è una dimensione a sé,  nella quale io cerco semplicemente di avere un approccio primitivo, primordiale, e in questa primordialità mi trovo a confronto con delle opere che sono delle visioni, più che altro. Chi avesse approfondito piuttosto bene ciò che ho prodotto in musica o in letteratura, potrebbe trovare un buon compendio, un buon completamento anche nella mia pittura. Però ecco, io che sono piuttosto vanesio vorrei esprimere con un po’ di umiltà che non mi considero un pittore in senso qualificato o compiuto per il semplice fatto che non ho avuto, finora, neanche tanta possibilità di dedicarmi come si dovrebbe a quell’esperienza, che è un’esperienza davvero totalizzante. Però ultimamente vi faccio ricorso sempre di più perché mi sono reso conto che, per esempio, trovo sempre meno interessante fare dei dischi inteso come la solidificazione, la cristallizzazione di un’idea volte alla sua divulgazione in maniera massiva. È finito quel tempo. Secondo me, sta finendo il tempo della produzione di massa: bisogna tornare alla verità della produzione artigianale. Devi da una parte rassegnarti per quelli che hanno aspirazioni universali, di grande espansione, e dall’altra raccoglierti all’idea che la produzione di pensiero deve diventare priva di qualunque velleità di espansione, ma per essere salvifica — per te prima di tutto, e poi per chiunque altro volesse entrare in vibrazione con te — devi accogliere il fatto che dev’essere il più possibile una cosa “da persona a persona”. Quindi, venendomi meno l’ansia che avevo fino a qualche tempo fa di produrre dischi che fossero diffusi su larga scala, ultimamente mi sto concentrando molto di più sulla produzione d’immagine e di pensiero, anche in conferenze, in incontri pubblici o in concerti: i miei concerti sono uno sposalizio piuttosto equilibrato tra la musica e ciò che io penso delle cose del mondo. E visto che anche concertare con le parole, se fatto in modo naturale, non viene visto come una stonatura, i miei concerti sono tali anche quando aprlo e basta. Questa cosa mi soddisfa moltissimo ed è la ragione per cui, quando mi trovo sempre più a dipingere — al momento sto dipingendo le 22 tavole degli Arcani Maggiori dei Tarocchi di Marsiglia alla mia maniera — sento di stare facendo un’operazione davvero zen, perché lì sei tu col tuo gesto pittorico, col tuo segno, con la tua selezione cromatica, ma fai i conti con una grandissima tradizione di significato e di simbologia che è durissima da approcciare. Ecco, quello è un momento che trovo molto interessante dal punto di vista dell’esplorazione, un momento mio e, sperabilmente, condivisbile con altri.

Dal momento che ho toccato il tasto della musica registrata, aggiungo che non è che la musica registrata non sia cosa buona, però con la massificazione mostruosa alla quale siamo andati incontro, trovo che sia sempre più vero il momento del concerto, perché è quel divenire, quel contatto, quella rivelazione da parte tua verso il pubblico e viceversa. Trovo molto importante l’osmosi che si crea col pubblico, e per ottenerla esso dev’essere necessariamente limitato, essere un pubblico di persone delle quali devi avvertire la vibrazione. Il concerto più “insensibile” che ho fatto nella mia vita è stato quando sono stato messo al Primo Maggio davanti a migliaia di persone in piazza e milioni che guardavano dalla TV: non ho provato alcuna emozione, ho suonato senza sentimento, perché la vastità annulla l’evento umano, annulla la persona. La ricordo come una delle cose meno interessanti della mia vita nonostante sia stata una delle esperienze nelle quali sono stato più a contatto con la proiezione del mio pensiero verso un grande pubblico. 

Dunque ritiene che, per un giovane che desideri intraprendere la carriera del cantautore, non esista la possibilità di conservare la sincerità d’intenti e, allo stesso tempo, di aspirare al successo?
Penso che chi cerchi disperatamente il successo oggi debba per forza passare dalle Forche Caudine di una semplificazione eccessiva e, quindi, inevitabilmente rischi di perdere una parte fondamentale del suo progetto. Ma d’altra parte, penso anche che chi abbia come scopo corposo il raggiungimento di un grande pubblico automaticamente farà una scelta meno approfondita, meno riflessiva, e quindi non sceglierà la strada che sto proponendo io. Mi ricollego ancora a quel che dicevo prima: penso che oggi siamo prossimi a una svolta epocale tale per cui sarà più facile universalizzare la propria proposta condotta in maniera umile di quanto non lo sarà per quella condotta con l’arroganza di voler raggiungere a tutti i costi un pubblico. L’universalità e la riuscita dell’opera stanno nell’opera stessa, nel modo in cui viene concepita, nella sua verità. Altrimenti certo, poi raggiungere risultati strepitosi, ma inevitabilmente quelli saranno risultati di mercato, non saranno tanto facilmente ricordabili in futuro, o fruibili dagli altri come uno scambio autentico. Molto spesos mi ritrovo con ragazzi che mi chiedono “come posso fare?”, e sebbene non sia mai facile trovarsi nei panni del suggeritore, la mia risposta è “segui te stesso, guardati, guarda non solo le parole che dici, ma anche le mosse che fai nella vita”. Quel che facciamo nella vita è la nostra verità: possiamo raccontarci tante cose belle, ma è come agiamo che ci dice chi siamo veramente. Se davanti a un gruppo di persone la tua prima spinta è quella di esibirti, ecco la tua strada, ma se invece è capire chi ti trovi di fronte e raccontare loro chi sei, allora la strada è molto più introspettiva e interessante. Devi accettare che ci può anche essere un successo importantissimo, ma circoscritto a un numero piccolo di persone, che di per sé è anch’esso un concetto molto relativo. 

Un altro dei suoi scritti che mi ha colpito molto è stato quello su Pier Paolo Pasolini, del quale ha sottolineato lo sguardo sul mondo simile a quello di un bambino, probabilmente la chiave della unicità della sua opera. Le chiedo perciò: in un mondo che ci vuole disincantati, è ancora possibile conservare uno sguardo da bambini senza venir sopraffatti dalla realtà?
Più che possibile, credo che sia necessario, accogliendo però il grande rischio di essere sopraffatti. Ecco, io di sopraffazione le ho già parlato quando dico che so di essere un artista poco noto al grande pubblico, perché quella è già una sopraffazione, ma è una sopraffazione sopportabile. Non lo sarebbe se dovesse imepdirmi di continuare a produrre pensiero. In questo caso, parlando di Pasolini, io ritengo il suo un lavoro salvifico, il lavoro di chi ha saputo assumere su di sé le proprie responsabilità, non si è sottratto a esse, e quindi ha risposto positivamente alla chiamata dell’intellettuale nel senso più autentico del termine. Pasolini ha avuto un ruolo salvifico suo malgrado: lui non poteva fare diversamente, gli sarebbe stato impossibile, perché si aspettava da sé ciò che avrebbe voluto dagli altri, e se gli altri non glielo davano, era costretto a produrlo. Quindi, quando parliamo di attualità, la nostra attualità è soltanto più complicata dal fatto che il mondo è diventato una sola cosa, quindi quel che accade qui accade in ogni altro paese, ed è abbastanza intercambiabile con poche peculiarità, con poche differenze. Ci sono, ovviamente, ma sono quasi trascurabili. Ciò vuol dire che abbiamo come problema il fatto di dover essere il più possibile autentici se vogliamo apportare un qualche significato al nostro passaggio nella vita. La realtà odierna non è poi così diversa da quella di Pasolini: Pasolini aveva degli avversari, era criticato, censurato e sminuito continuamente, era attaccato dalla stessa sinistra, che avrebbe dovuto sostenerlo in quanto il suo era un pensiero progressista, ma la progressione del suo pensiero era, al tempo stesso, capacità di fare rivoluzione riproponendo il grande portato del pensiero spirituale. La spiritualità, rilanciata in una dimensione di sinistra, rivolta alle masse, era inaccettabile ai suoi tempi. Ecco perché era considerato un eretico, uno che giocava coi temi sacri per ragioni iconoclaste, ma in realtà non c’è una vera iconoclastia in Pasolini, nonostante sia stato forse tra i più grandi trasgressori. Lui era trasgressore in quanto sostenitore dell’importanza della sacralità come dimensione salvifica, ed è proprio quello che, oggi come allora, facciamo fatica a cogliere. Non è l’omologazione, non è la retorica, non è l’assuefazione o, come si dice di questi tempi, la resilienza — termine che è diventato di gran moda ma non ha nessun significato, se non quello di adattarsi ai problemi quotidiani —, ciò di cui abbiamo bisogno: abbiamo bisogno di trasgressione, intesa come il saper rivalutare ciò che non abbiamo colto nella grande tradizione di pensiero che, guarda caso, non mi dice mai di puntare a una dimensione arrivistica della vita, ma a una più introspettiva. È in quella, la mia rivoluzione: la rivoluzione è sempre salvifica ed è sempre condotta in prima persona, altrimenti non è rivoluzione, ma un comizio politico. Invece, bisogna saper accogliere che sono portatore di verità se non temo di portarla quand’anche dovessi farlo davanti a cinque persone, perché ogni singola persona è il mondo in sé. Noi siamo stati drogati dall’idea della moltitudine, della vendita seriale, del messaggio televisivo, e tutto questo ci ha portato lontano da noi. Spersonalizzandoci, abbiamo perso di vista che ognuno di noi fa mondo in quanto essere, in quanto persona. In questo senso, l’ingenuità di Pasolini non temeva, ma aveva contemplato il tentativo di annichilimento e di eliminazione, eliminazione che poi è avvenuta puntualmente, però se tu sai essere salvifico per te in senso assoluto, non materiale, sei autenticamente rivoluzionario, e in quanto rivoluzionario, sei salvifico anche per gli altri.

Tutto questo può sembrare utopistico, ma anche il concetto di utopia ci è sfuggito di mano, è diventato sinonimo di una roba irrealizzabile: l’utopia non è irrealizzabile, ma è qualcosa a cui dobbiamo sempre tendere, come la Bellezza. Altrimenti diventiamo solo cinici e mai realizzatori di Bellezza, e dobbiamo accontentarci di un mondo abbrutito, che non è più mondo se non aspira al bene.

Abbiamo parlato di spiritualità e sacralità in Pasolini: che forma prendono, invece nel suo modo di fare arte?
Per me la sacralità è proprio la vibrazione, ha a che fare con il concetto estremamente musicale, estremamente fisico: la vibrazione pura che si crea se tu sai entrare in risonanza con te stesso. Sono un grande appassionato di chiese, e a volte mi capita di sentire delle messe: non sono credente, ma ascolto per capire se c’è o non c’è questa vibrazione; a volte capita, ma nella stragrande maggioranza dei casi non accade nulla. Mentre il vibrare umanamente, l’entrare in risonanza, è proprio la sacralità in cui credo io, che può avvenire anche nell’intimità stretta di un rapporto a due o, appunto, nela meraviglia di una profonda emozione condivisa con gli altri. Quando gli altri si commuovono? Quando si riconoscono in te, o quando, in qualche modo, sei in grado di richiamare qualcosa che essi conoscono ma non avevano il coraggio di tirar fuori. Ecco cos’è, per me, la sacralità.

Ho letto con molto interesse il racconto del suo incontro con Franco Battiato, e pertanto vorrei chiederle: ci sono state altre conoscenze particolarmente significative che hanno modificato la sua prospettiva sulla vita e sull’essere artista?
Ho avuto il piacere di incontrare, tra gli altri, Albert Hofmann, che è stato lo scienziato che prima di tutti ha sperimentato su di sé l’LSD: per un breve periodo, pubblicavamo entrambi per Stampa Alternativa, e quindi in un paio di circostanze abbiamo condiviso il palco per presentare le nostre opere. In quel caso, lui era già un uomo anziano e sereno, e mi ha riportato alla bellezza intanto di sperimentare in prima persona e di avere il coraggio delle proprie azioni fino in fondo, ma anche alla bellezza di avere il coraggio di prendere le distanze da ciò che lui stesso aveva contribuito a creare. Incontri del genere sono speciali, inattesi, ma quando ti trovi di fronte a qualcuno che ha appunto una sua speciale capacità di condivisione, realizzi che è sempre qualcuno che non ha bisogno di esibirla, e molto spesso la cogli nell’intimità, nel segreto di qualche dettaglio. L’incontro con Battiato è stato molto bello e anche molto simpatico dal punto di vista umano, simpatico nel senso vero della parola: si è creato proprio uno scambio di empatia profondamente umano. Il più delle volte, gli incontri importanti ti danno conferme o ti spiazzano, perché pensi sempre che una persona importante sia complessa, e invece è soprattutto semplice nella accezione più sincera del termine.

Un’ultima domanda: l’arte oggi può essere ancora arma di resistenza?
Sì, e credo possa essere uno strumento che può aiutarci profondamente, soprattutto se riesce a tornare a essere riunita a un aspetto conoscitivo, e si riesce anche a scartare la scienza da quell’involucro di asetticità così che si fonda il più possibile con l’umanità dell’atto artistico e conoscitivo. Se c’è questo ritorno, che io sento, alla fusione tra l’esperienza conoscitiva complessiva, estetica o filosofica da una parte, e dall’altra esperienziale, come appunto la scienza, allora penso sia una grande opportunità per tutti noi. 

QUESTO è il sito ufficiale dell’artista, e a esso vi rimandiamo. 

2 COMMENTI

  1. Ho letto l’intervista con molta attenzione e facendomi condurre dalle riflessioni che vi sono contenute. Un bellissimo viaggio attraverso il ragionamento, la lucidità e luoghi inattesi. Vi percepisco verità, forza, purezza. Ottimo il livello delle domande poste, dalle quali scaturisce passione e reale conoscenza. Grazie

  2. Un dialogo interessante, che risveglia riflessioni.
    GianCarlo ha maturato negli anni un po’ sguardo acuto è un punto di vista sempre più originale.
    È stato un piacere leggere questo dialogo scoperto per caso.

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