Luv! «I maledetti di oggi? Remano in cerca di un’isola su cui riposarsi»

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luv maledetta

Abbattere muro tra “normalità” e “stranezza” e viceversa. É la definizione che l’artista emergente Luv!, Ludovica Massidda all’anagrafe, ha dato al singolo d’esordio Maledetta.

Cantautrice e violinista, la giovane artista ha deciso di presentarsi al pubblico con un brano che pone al centro il dualismo e il confronto che l’altra parte di noi.

Musicalmente come si concretizza l’idea? Con l’incontro ta il sound degli anni ’80 e le nuove influenze del pop, ma ci spiega tutto Luv! in questa intervista per Spettakolo!

Luv!, l’intervista

Iniziamo con il tuo nome d’arte: Luv!. Immagino derivi dal tuo nome Ludovica. Ci racconti, il momento in cui hai scelto di presentarti al pubblico con questo? E, soprattutto, perché questo punto esclamativo?

Il mio nome d’arte non è farina del mio sacco: non sono mai riuscita a trovarne uno che mi calzasse a pennello, o che gli altri si ricordassero. Un giorno, una mia compagna d’avventure del conservatorio, Stefania, durante una pausa, mi chiamò “Luvi”. Questo soprannome, ormai nome d’arte, si espanse come un’epidemia. Nelle mie canzoni, come nella vita, è sempre presente un certo dualismo, per questo motivo il punto esclamativo ha due facce: funziona sia da I (perché in realtà il mio nome d’arte, come ho detto prima, è Luvi), che da esclamazione nel vero senso della parola. Mi sento come un petardo con la miccia accesa pronto ad esplodere, e quel punto esclamativo la dice lunga!

La tua nasce come formazione classica, con lo studio del pianoforte e del violino. Qual è il primo ricordo legato a questi due strumenti? Inoltre, cos’hanno in comune per te e cosa invece no?

I miei genitori sono sempre stati appassionati di musica, tant’è che sin da piccola, dato l’ascolto di diversi generi musicali, capì il valore di ognuno di essi: la musica non ha età, e ogni genere possiede le sue particolarità. A 7 anni iniziai improvvisamente a percuotere i tasti del pianoforte (scordato) di mio bisnonno e mia madre, (Donatella) accorgendosene, decise di incentivare la mia propensione. A otto anni iniziai quindi a suonare il pianoforte, interrompendone lo studio alle scuole medie: il destino volle che incontrassi il violino che, nonostante l’astio iniziale, diventò il mio grande amore. Entrambi gli strumenti hanno in comune la difficoltà e la poliedricità, mentre personalmente trovo differenze nell’approccio sia tecnico che empatico. In ogni caso, sento di essere stata fortunata ad aver avuto una famiglia, in particolare mia madre, che mi ha sempre supportata spronando a grandi dosi la mia carriera musicale.

Sicuramente, oggi è molto più facile approcciarsi allo studio di uno strumento, grazie alle tante modalità, come lezioni in streaming, ma non sempre chi sceglie di fare questo mestiere ha un’educazione musicale. Quanto conta, invece, per te? In cosa potrebbe fare la differenza?

Anche se mi sento al riparo sapendo che ciò che sto scrivendo è frutto della mia conoscenza e dei miei tanti anni di studio, non penso che per fare questo mestiere sia necessario avere un’educazione musicale. Ci sono persone che passano tanti anni dietro lo studio teorico della musica non riuscendo a garantirle originalità e chi, non studiandola ma semplicemente ascoltandola, è comunque in grado di sorprendere. Penso che il punto di partenza di ogni musicista non stia nello studio o nella ripetizione assidua, ma nell’unione tra la nostra sfera emotiva e la nostra sfera razionale: la teoria è una mano d’aiuto solamente quando si inizia a “sentire” la musica. Proprio per questo motivo, penso che per un’artista arrivato a un certo livello conoscerne i fondamenti diventi necessario al fine di proseguire tale cammino di innovazione.

Chi sono stati gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato e per quale aspetto?

Le mie canzoni sono fortemente influenzate dagli anni ’80, specialmente dalle sonorità che caratterizzarono il periodo che va dal 1983 al 1987 (per fare alcuni nomi: David Bowie, Kim Carnes, Chaka Khan, Michael Jackson, Madonna, Ultravox, The Cars). Queste, nelle mie canzoni, si fondono con le sonorità contemporanee. Per quel che riguarda i testi, invece, non mi sono ispirata a nessuno in particolare; i pensieri nella mia testa si accumulano in continuazione: quando diventano troppi e cominciano a bussare compulsivamente sento la necessità di aprire la porta, ed è così che inizio a scrivere.

Com’è nato il brano Maledetta? Qual è la sua storia?

Andrea Piraz, il mio produttore (allora semplice amico), mi chiese di scrivere un testo. Non sapendo da dove partire, gli chiesi del tempo. La genesi di Maledetta sta nei primi due versi del ritornello pensati mentre pulivo casa. Mi presentai in studio con due sole frasi, che in 10 minuti diventarono molte di più. Andrea riuscì ad assemblare le parti della canzone perfettamente, dandole l’intenzione che desideravo. Il gol di maledetta è quella di abbattere il muro tra “normalità” e “stranezza” e viceversa. Tutti noi viviamo infatti nel mezzo, in questa terra di mezzo in cui le parti razionali e quelle irrazionali fanno a pugni in un fight club in cui la prima regola è DEVI parlare del fight club, e vorrei che il mio pubblico entrasse nel mio “limbo”.

Chi sono, oggi, i “maledetti”?

I maledetti di oggi sono chi, come me, rema in cerca di un’isola in cui riposarsi. Luvi dovrebbe essere la parte speranzosa di me, Ludovica quella “maledetta”. In questo scontro, Luvi rimprovera Ludovica, che non riesce a vedere la scintilla che brilla dentro sé; allo stesso tempo, Luvi, comportandosi come un pugile che vuole vincere a tutti i costi il match, diventa anch’essa maledetta. Maledetta è un botta e risposta tra le mie personalità, quella rigorosa e pessimista e quella folle e speranzosa, che vivono in conflitto costante tra loro.

 Nel brano canti “come ti permetti di dirmi che non mi devo permettere”. Qual è la tua definizione di rispetto?

Il rispetto sta nella disponibilità ad ascoltare pareri diversi, a discutere con i modi dovuti e ad apprendere dal confronto stesso, imparando gli uni dagli altri. Penso che il rispetto stia anche nell’integrazione e nell’apprezzamento altrui; è importare non disprezzare, non discriminare e non cercare di cambiare gli altri. Io ti rispetto e tu mi rispetti: questo è il punto. Vivi e lascia vivere, è la cosa più bella che possiamo fare per rendere il mondo in cui viviamo più limpido.

Spesso è una frase che nasce dallo scontro generazionale, di persone che hanno vissuto la stessa età, ma in modo diverso (i 15 anni di oggi sono diversi dai 15 anni degli anni 80, per esempio). Un insegnamento che la tua generazione potrebbe dare alla precedente e viceversa?

Ci hanno sempre insegnato che chi è più vecchio di noi ha sempre ragione: non mi trovo d’accordo su questo. Nel mio percorso ho avuto la possibilità di relazionarmi a tante persone, di qualsiasi età, accorgendomi che per questo motivo tant* ragazz* non vengono presi in considerazione o ascoltati. Chi ha vissuto negli anni ’80 ha sicuramente tanto da insegnarci: tutti sapevano il fatto proprio e più si era particolari meglio era, non importava se la maglietta non era abbinata al pantalone o se la borsetta aveva un colore diverso da quello delle scarpe; al giorno d’oggi, invece, si ricerca molto di più l’approvazione altrui, errore che feci anche io fino a quando mi resi conto di “non vivere” la mia vita come la immaginavo e desideravo. Nonostante ciò, continuando ad attingere a questa dimensione sociale (e non musicale), penso che i giovani di oggi possano insegnare ai coetanei del passato ad avere meno paura di ciò che è sconosciuto o diverso da loro.

Invece, a livello musicale? Come potrebbe concretizzarsi uno scambio di conoscenze?

Uno scambio di conoscenze potrebbe concretizzarsi attraverso il dialogo attivo e la collaborazione tra le nuove e le “vecchie” leve, acchiappando gli aspetti positivi dell’una e dell’altra generazione. Lavorare con Andrea mi ha appunto permesso di assorbire dalla cultura passata per poter creare un nuovo futuro musicale.

Stai lavorando ad un album o un ep? Con quale artista ti piacerebbe collaborare?

Con Andrea abbiamo preso un anno (2020-2021) per scrivere tanto. Stiamo lavorando ad un EP molto particolare e versatile, che all’interno riserva tante sorprese ed ha un’intenzione diversa da tutti gli altri. Mi piacerebbe collaborare con Nada, Madonna, Ric Ocasek, Tha Supreme, Marracash e Madame.

Parliamo di live. Qual è stato il tuo concerto più bello?

Non mi sono ancora esibita cantando, ma il mio momento più bello fu l’apertura del concerto dei Måneskin, dove con il mio amico Markitto (nella nostra solita accoppiata violino elettrico e djset), demmo il meglio di noi davanti a più di 15.000 persone. Ricordo che sentivo il mio stomaco attorcigliarsi dalla paura, sensazione che poi sparì una volta iniziato a suonare. Il palco che tremava e vibrava della potenza del suono squarciò un varco che resta in me indelebile.

Come te lo immagini un tuo spettacolo?

Un mio spettacolo lo immagino variopinto: un colore per ogni canzone e dei musicisti che suonano dal vivo (reputo sia importante valorizzare questo aspetto). Immagino un momento speciale, in cui tante persone ballano e cantano spensierate, mettendo da parte le preoccupazioni e i dubbi che affrontiamo ogni giorno, sventolando una bandiera viola simbolo dell’unione degli opposti e della metamorfosi.

Cosa ti auguri?

Mi auguro di far arrivare a chi mi ascolta prima la mia persona, poi il mio “personaggio”: mi sento Ludovica e Luvi allo stesso tempo, e vorrei che tutti riflettessero su questo. Mi auguro di essere apprezzata così come sono e di arrivare con la mia musica dove non arriva il pensiero. Mi auguro anche di poter garantire una ventata di aria fresca nel panorama musicale, continuando in ogni mio pezzo a lanciare il messaggio che già ho lanciato con “Maledetta”: non remiamo sempre, ma fermiamoci per ripartire diversi da come ci eravamo abbracciati prima di salire sulla barca.

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Classe 93, anno in cui David Bowie pubblica Black Tie White Nois. Campana di nascita, adottata dalla toscana Cortona (sì, la stessa di Jovanotti), da qualche anno vivo a Milano, di cui mi sono innamorata il 29 giugno del 2013. Perché ricordo la data? Perché a San Siro c’erano i Bon Jovi a infiammare il palco, ed io ero lì a sognare di intervistare la band. Ed eccomi qui: giornalista e studente di musicologia, il mio mantra è Long Live Rock, ma guai a chi disprezza i cantautori….e Beethoven (non il cane).

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