Al Museo d’Arte di Mendrisio (Svizzera italiana) fino al prossimo 13 febbraio
Ufficialmente la prima tag su un muro, origine del moderno graffitismo, risale all’estate del 1971 e fu opera di Taki 183, personaggio di cui si conosce solo il nome, Demetrios, che ne mette in luce l’origine greca. A quel muro di New York hanno fatto seguito milioni e milioni di metri quadri di cemento, imbrattati, colorati, dipinti, verniciati, taggati (coperti con il proprio nome o la propria sigla artistica). All’inizio era un gesto di ribellione e di autoaffermazione: scrivere (to write da cui il nome writer) su ogni superficie – non solo muri, anche autobus, treni, cartelli, portoni, metropolitane – e “marcare il proprio territorio”.
Da lì in poi i vari contributi si sono evoluti, con i giovani sempre alla ricerca di qualcosa che potesse metterli in vista, distinguerli dai vecchi maestri, in un crescendo rossiniano che ha portati le tag a essere semplicemente le firme di graffiti dalle forme e le sembianze di vere opere d’arte, con una poetica e un linguaggio autonomi, tanto che ormai il genere da diversi anni è universalmente definito street art.
Un’arte che ha il suo focus nelle problematiche sociali quasi sempre vissute dai writer, profondi, politicamente scorrettissimi, capaci di far riflettere e di smuovere le coscienze, sempre appassionanti e coinvolgenti. Almeno i migliori. Tanto da finire nei musei e da essere battuti dalle più importanti case d’asta, decretando così la fine della stessa street art, che perde i suoi riferimenti, la sua virulenza, e diventa una fonte di guadagno come le altre, grazie a performance stilistiche anche molto belle, ma ormai non più legate alla strada, ai quartieri, alla gente.
E soprattutto definitivamente staccata dalla cultura hip hop, insieme alla quale è cresciuta e si è diffusa. Così, mentre la musica hip hop e rap continuano a svilupparsi ed evolversi, a proporre talenti e rinnovarsi, la street art è divisa tra pochi “ortodossi” legati al passati, ma chiusi in un cerchio senza sbocchi, e gli altri, che vivono gli ultimi fiati nella grande bolla speculativa che ha accolto questi artisti nei primi anni del secolo, magari sovvenzionati da qualche amministrazione pubblica o privata a riqualificare con le loro opere zone urbane degradate e grandi pareti cieche.
Gli streetartist di riferimento, riconosciuti a livello planetario, sono tre: Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e Bansky, unico vivente e ancora provocatorio, nonostante il team che vende le sue opere con un marketing aggressivo e autonomo rispetto al mercato dell’arte. In particolare Basquiat, il “Picasso nero”, morto non ancora 28enne per un’overdose di eroina e che fece la sua prima mostra personale a Modena, quando si firmava ancora SAMO, acronimo di same old shit, “solita vecchia merda”, raggiunge quotazioni inimmaginabili: il suo grande teschio Untitled è stato battuto nel 2017 da Sotheby’s per la folle cifra di 110,5 milioni di dollari. (Per inciso il dipinto era stato acquistato nel 1983 a 19mila euro.)
Questa è la narrazione che abbiamo sempre conosciuto, che è riportata nelle enciclopedie e nei libri di testo. Ebbene, incredibile dictu est, non è autentica. Udite, udite. Meglio, guardate con interesse e attenzione la mostra aperta al Museo d’Arte di Mendrisio fino al prossimo 13 febbraio e dedicata – per la prima volta in ambito italofono – ad A.R. Penck. Scoprirete che tutti gli stilemi principali della street art li ha inventati questo artista comunista, tedesco dell’est, che suonava un free jazz ai limiti del rumore e che è stato “privato della patria” dal suo stesso Paese nel 1980: Ralf Winkler, che si firmava con uno pseudonimo che si rifaceva a uno studioso di geologia dell’era glaciale, Albrecht Penck, di cui apprezzava i libri.
Come sempre accade, un collegamento diretto c’è. Nel 1981 la galleria newyorchese di Ileana Sonnabend propone un’esposizione monografica delle sue opere. Tra gli ammiratori un giovane che non aveva ancora esposto in una personale, ma che la mercante aveva già messo sotto la sua protezione: Jean-Michel Basquiat. Negli anni immediatamente successivi Penck vivrà per diversi mesi nella Grande Mela, frequentando la scena jazz come musicista (batterista di scarso talento) ed entrando in contatto personalmente con Basquiat (anche lui era stato fino a quell’anno membro della band punk Gray, dove suonava clarinetto, chitarra e sintetizzatore), Haring e altri artisti del giro di Andy Warhol e della emergente street art.
Una pittura viva come pochissime, fatta di segni e accostamenti cromatici squisiti, di una perfezione più subliminale che visuale, figure semplici quasi marionette infantili e personaggi fantastici parlano la nuova lingua della trasformazione della società, un’arte che è popolare, immediata, stesa in uno stato di grazia mentale conquistato con un tirocinio sui più vasti territori del sapere, una forza espressiva quasi automatica che, nell’universale piattume contemporaneo dettato dal mondo internettiano, risalta oggi come un grande fiore rosso nel Sahara più desertico.
Quella di Penck è un’onda che cresce nel tempo per accumulazione di portati e insieme per distillazione, Come spiega Simone Soldini, direttore del museo nella Svizzera italiana e co-curatore dell’esposizione: «Penck è poliedrico e complesso. Disegna, dipinge e scolpisce, studia filosofia, algebra, musica e cibernetica. Dà vita al progetto artistico della Standart che, come il Bauhaus, ha lo scopo di trasformare la società secondo criteri estetici». Di certo troppo nella Germania Est, soggetta alle ferree leggi espressive del realismo socialista, che non lo considera più suo cittadino, gli toglie il passaporto e lo costringe alla fuga dall’oggi al domani, di notte.
In Occidente è accolto con attenzione e adesione, ma vive una continua peregrinazione, da Colonia a Berlino, da Londra all’Irlanda, da Roma a Tel Aviv, dagli States a Zurigo, dove muove nel 2017. E la sua arte esce dai confini e viene apprezzata nel mondo. Ispirato agli “scarabocchi dei bagni pubblici”, dotato di una chiarezza comunicativa che non lascia dubbi di interpretazione, forte di accostamenti di forme, contrasti e materiali, Penck disegna fin dalla fine dei 60 omini cazzuti e filiformi, dai quali Haring ha certo preso spunto, e propone dissonanze cromatiche e affastellamenti di impulsi contradditori, alla maniera seguita e approfondita da Basquiat. La sua poetica è la stessa degli street artist del suo tempo, e si mantiene coraggiosa e vitale, capace, come si diceva ai tempi, di indurre a trasformarsi come persona chi li ammira. Il suo vocabolario ha perso un po’ dell’appeal politico, però allarga la spazialità e i colori prendono una vigoria totale, mentre l’insieme vibra. Rapportandosi anche con la metafisica.
La bella mostra di Mendrisio propone 40 opere su tela, 20 sculture (tra cui il monumentale bronzo che accoglie i visitatori) e 70 tra opere su carta e libri d’artista, con un percorso cronologico chiarissimo, intelligente e pressoché esaustivo. Penck è un artista “concettuale” che non può essere frainteso e insieme è radicale ed energico nel suo lasciare il segno. E il suo processo creativo segue un modo di pensare immaginifico e potente: «penso», disse presentando una mostra londinese, «in immagini prima di pensare in parole; e prima di pensare in immagini, penso in moti astratti.»