“La ballata della moda” è il tipo di canzone che dovremmo scolpire nella nostra mente, per cercare di mettere a fuoco sempre meglio il tempo in cui ci troviamo a vivere. È l’esempio per eccellenza del ruolo attivo che la musica, e nella fattispecie la forma canzone, può assumere all’interno del dibattito non già culturale, ma prettamente politico in senso lato.
Immersi nella nebbia di una condizione mai così disperata per il condensarsi repentino di tutte le istanze distopiche che si formulavano nei decenni scorsi, abbiamo ora il dovere oltreché il diritto più profondo, di provare a riparare, a medicare e trasformare in bene il dolore di un deragliamento che tocca tutti indistintamente.
Ed ecco allora Tenco, Luigi, emanarsi come un fantasma nobile dalle macerie del nostro doloroso passato. E il suo spettro gentile viene a consigliarci di aprire bene gli occhi, prima che sia troppo tardi.
Lo fa dal fondo solo apparentemente lontano di una data come quella del 1972, anno in cui venne pubblicata la raccolta postuma “Tenco canta Tenco, De André, Jannacci, Bob Dylan”.
Apparentemente lontana poiché ad ascoltare il testo di “La ballata della moda” si rimane folgorati dalla sua imbarazzante attualità.
Il brano lo potremmo dire affidato al registro della parabola, una forma di narrazione in cui elencando dei fatti si arriva a illustrare la condizione dell’umano in determinate circostanze, denunciadole ed evidenziando in modo eloquente i danni o i pregi che scaturiscono dalle azioni descritte. Ma comunque la si voglia vedere, non si può evitare di ammettere che la canzone appartenga ad una vena sociologica di cui l’autore è maestro indiscusso ed imbattuto.
Poiché se per molti è stato facile dopo di lui atteggiarsi a trasgressivi per poi correre ad uniformarsi alla prima opportunità, questo meschino comportamento non solo non appare mai nel giovane maestro della canzone, ma semmai va subito sottolineato che Tenco fu tra coloro che pagarono duramente la propria autenticità e la velleità di portare un contributo alla comunità attraverso le canzoni.
Aveva un’idea profondamente politica del “cantante” e in genere del produttre di pensiero, sia esso musicista, scrittore, regista, poeta, quello che volete. E, sempre e solo pensando alla produzione del Nostro, aggiungerò a questa esigua lista di operatori politici, il ruolo dell’insegnante e quello del prete.
Tenco, per dirla in breve, ci credeva e non si fermava davanti a nulla pur di dire ciò in cui credeva.
Il brano peraltro è ipocritamente citato e riproposto nei più bassi formati canori televisivi, con la formula assai rodata del fingersi colti e appropriarsi ignobilmente di meriti del tutto alieni alla propria condotta.
Di questi svarioni di gusto taceremo da qui in poi solo per brevità di esposizione, giacché sono essi stessi la conferma della veridicità della profonda critica sociale condotta dall’Autore.
Ma veniano alla canzone.
Un cameriere, Antonio, ascolta per caso la riunione di un gruppo di industriali che stanno organizzando il lancio di una bibita definita “acqua blu”. Considerandosi al di sopra di ogni condizionamento, Antonio se la ride, immaginando come vano il tentativo di imporre a uno come lui una certa condotta solo perché qualche privilegiato gestore dei consumi possa averlo deciso.
Tanto se la ride finché, a poco a poco, si trova non solo a consumare egli stesso la bevanda spacciata pressochè ovunque egli vada, ma coinvolto fino al punto da divenirne dipendente, e di più, al punto di restarne intossicato. Dal letto di ospedale incarica l’amico Pasquale di sostituirlo sul lavoro e Pasquale, servendo ai tavoli, si imbatte in una nuova riunione di industriali, impegnati a preparare un nuovo lancio: la moda dei pantaloni a strisce bianche e nere (una scelta estetica che deve esser parsa piuttosto ridicola al Nostro).
Glissando sui numerosi segnali sociologici, antropologico-culturali, di analisi di psicologia delle masse, nonché la finezza profetica di rappresentare la combriccola di ricchi depositari di un potere economico, dunque mediatico, che infliggono alle popolazioni dei dictat capaci di asservirle rovinadone la capacità di scelta nonché la salute stessa, non si può evitare di notare quanto il Paese, ma diremmo il Mondo intero, descritto nella storiella tragicomica, sia esattamente, infallibilmente il nostro. Quello attuale. I nostri giorni. Due anni fa, un anno fa, dieci, cinquanta. Siamo noi. Noi siamo quegli Antonio.
E proseguendo ad analizzare scopriamo che, ancor più sottilmente l’Autore, se da una parte affibia al protagonista il ruolo di lavoratore ordinario, gli concede due qualità apparentemente opposte e sublimamente appartenenti all’analisi sociale: Antonio conduce un lavoro umile che però gli permette di metter il naso “ai piani alti”, dove “si decide”. Allo stesso tempo, benché sia un lavoratore ai quali non vengano richieste particolari qualità intellettuali, egli ha una visione apparentemente critica della società, e si reputa al di sopra di ogni condizionamento.
Ed è esattamente questo il dettaglio in cui Tenco fotografa infallibilmente noi: quello in cui illustra una società fatta di individui che “presumono” di essere all’altezza di discernere e di gestire il controllo, mentre invece non fanno che scivolare inevitabilmente verso l’assuefazione ad ogni male imposto dall’alto.
Ma vi è di più.
Tenco si permette, come già aveva fatto in altre occasioni, dando in ciò riprova di un pensiero preciso a questo proposito, di riportare il piglio determinato e spietato dell’uomo di potere che decide per gli altri in modo del tutto estraneo a un coinvolgimento emotivo, avendo a mente solo il profitto.
Ed questa seconda fatale osservazione dell’Autore Tenco, a rivelare in lui il gigante di riflessione sociale che altri non hanno saputo cogliere. Benché Tenco venga posto, come si sa tardivamente, sul piedistallo un po’ retorico di autore per eccellenza, il più grande torto al suo pensiero lo si è fatto e lo si fa tuttora quando si insiste sul tasto dell’interprete doloroso, intimista, caratteristica che è solo un parziale volto del giovane compositore, le cui vere mire sono quelle di una radicale critica al consumismo e al dilagante impero dei mercati, veri nemici dell’uomo contemporaneo.
Giunti sin dove siamo giunti noi, allevati a merendine e caroselli, e passati attraverso ingerenze pesantissime di poteri internazionali su stragi rimaste senza colpevoli atte a coprire o depistare nefandezze politiche, per giungere poi ad un governo totale e totalizzante, parole semplici e dirette come quelle espresse da Luigi Tenco, sono macigni che ci schiacciano ogni qualvolta tentiamo di dipingere noi stessi come scafati e validi gestori della propria esistenza, impermeabili ai condizionamenti, superiori ad ogni possibile manovra, e dotati soprattutto di strepitose capacità di giudizio.
Per questa nostra tendenza a evitare di ammettere il nostro analfabetismo sociale e politico, civico, e persino sentimentale, noi siamo tutti Antonio. Avvelenati per via governativa.
Faccio notare ai tanti che si ergeranno a piccati sostenitori di un pensiero superiore al mio dietrologismo, che Luigi Tenco, tra gli altri primati che gli vanno riconosciuti, ebbe anche quello di divenire protagonista di uno dei fatti di cronaca più oscuri che la nostra storia annoveri ad oggi.
A dimostrazione che la canzone più autentica e liberata può dare fastidio.
Non riposare in pace, caro Luigi, ma vieni a tormentarci più spesso: il tuo tormento di spettro gentile ci farà molto bene, come lo può solo un medicamento.