Dal blues alla bossanova, dal soundtrack sound al pop, il ventaglio espressivo del jazz viene continuamente rivisto e rielaborato, offre possibilità di analisi e invenzioni, si allarga a orizzonti senza tempo e senza dimensioni. Si contamina senza infingimenti ortodossi e si allarga nella mente e nel cuore degli ascoltatori aperti a nuove prospettive. In tutto il mondo, e spesso anche in Italia.

Joe Tatton

Joe Tatton Trio
Big Fish (Rodina Music)
Voto: 8/9

Anche se debutta da solista con questo cd, Joe Tatton è conosciuto professionalmente ormai da una ventina d’anni e il fulcro della sua attività – peraltro assai ricca anche come sessionman – è la “titolarità” del ruolo di pianista e cantante negli eccellenti New Mastersounds. In Big Fish prende la miscela di jazz, soul e funk che propugna la band di Leeds e la distilla con l’alambicco della sua passione per il leggendario Mose Allison, per offrire una dozzina di brani pulsanti, carichi di groove e punteggiati da un pianismo solare e pieno di vita. Unica cover la Ever Since The World Ended che l’ironico bluesman del Mississippi scrisse in periodo di “guerra fredda” e di armageddon nucleare incombente e che Tatton ripropone oggi, tra covid e conflitti diffusi e temuti.
Il trio è completato da due musicisti di Nashville, il batterista Kenneth Blevins e il bassista Steve Mackie, che formano una macchina ritmica efficientissima e sorprendentemente funky nell’accompagnare gli assolo del leader – ottimi quelli nella title-track e in Permission To Land e quello che rimbalza colorato sugli archi di Richard Curran nella cinematografica Like Ike – e le carrellate di ospiti di vaglia. Il grande flautista del James Taylor Quartet e di mille altre avventure Gareth “G-LOCK” Lockrane è sfumato e suadente in Firefly, più decisamente alla Roland Kirk in Stomp, il chitarrista Yates McKendree graffia formidabile nel blues elettrico Fake Blues (fra l’altro è figlio del produttore Grammy winner Kevin, che ha curato e registrato nel suo studio questo cd) e il duo fiatistico Strachan-Ransome degli Haggis Horns incendia l’apertura Just Don’t Stop, contrappunta la successiva Big Fish e disegna i contorni dell’acid jazz di We’re Still Here.
Completano il puzzle allisoniano e soul-jazz, funky e blues attualissimo Is Anybody There con un intermezzo quasi swing, l’ironia anti-social di Timeline, l’esultante Don’t Like Your Manners con uno shuffle in stile Jimmy Reed e il finale blues zampillante di I Don’t Like Your Manners.

Paul Wertico Trio
foto di Carlo Braschi

Paul Wertico Trio
Letter From Rome (Alfa Music)
Voto: 8/9

Il quasi settantenne batterista di Chicago, per quasi due decadi a fianco di Pat Metheny nelle sue storiche formazioni, torna a incidere con i suoi accompagnatori italiani, il pianista Fabrizio Mocata e il contrabbassista Gianmarco Scaglia. Lo aveva già fatto nel 2013, quando il loro Free The Opera! aveva suscitato un certo clamore arrivando alle nomination per i Grammy Award. Questa volta i tre sono entrati in sala quasi per divertimento – i lungimiranti boss della Alfa Music Alessandro Guardia e Fabrizio Salvatore hanno offerto il loro studio per un pomeriggio di session e hanno registrato tutto – e ne sono usciti con un paio di nuove improvvisazioni create sul momento (l’iniziale, pensosa Buongiorno Roma e la crepuscolare Buonasera Roma), sei brani inediti e la cover emozionante nella sua scarnificata, quasi autoptica appropriazione, dell’infinita Vecchio Frak di Domenico Modugno.
Anche questa volta è il pianista siciliano, fiorentino di adozione, a condurre le fila, proponendo l’appeal sudamericano esplorato a lungo nei Rojo Porteño e i Mala Hierba nella vibrante Three-Headed Tower Samba e l’apertura mentale ad ampio spettro internazionale del suo capo d’opera Letter From Manhattan in momenti di grande pregio estetico e discorsivo come L’elogio delle cose semplici, Aria e Modestina. Efficace come nei suoi momenti migliori l’apprezzato bassista piacentino dell’Open Frontiers Trio, coautore della “perfetta” Dave, il brano più ortodosso e variegato del lotto. Da segnalare i quasi cinque minuti di assolo nella Trilogy Suite di un batterista elegante quanto discreto, sempre stimolante e mai invasivo come si è mostrato Wertico nell’ormai mezzo secolo di carriera.

Paolo Vivaldi Cinematic Quartet

Paolo Vivaldi Cinematic Quartet
Our Life (Alfa Music)
Voto: 8

Paolo Vivaldi di professione fa il compositore di colonne sonore per il cinema, la televisione, il teatro e quant’altro. È un musicista di ottimo livello, apprezzatissimo ad esempio da Ennio Morricone, e soprattutto di una sensibilità “speciale”, che sa cogliere e sottolineare i significati sia eclatanti sia nascosti delle immagini e che sa sviluppare discorsi “cinematici” in grado di entrare come un oscilloscopio carico di elettroni multicolori pronti a farsi rappresentazioni personali di mondi, universi, dettagli, sensazioni del tutto personali.
Il suo nuovo album (ne vanta quasi un centinaio all’attivo: il precedente, soundtrack esclusi, era Refractions al solo pianoforte) lo vede in quartetto con lo “storico” contrabbassista Dario Rosciglione, il batterista Alessandro Marzi e il versatile sassofonista Marco Guidolotti, quasi una scoperta al soprano anche se espertissimo nell’ambito sonoro “cinematico”. E scivola nelle orecchie come, parola dello stesso Vivaldi, «una serie di immagini che scorrono veloci da un finestrino di un treno, dal quale scendono e salgono emozioni, gioie, dolori, speranze, delusioni, malinconie e felicità. È un percorso che quattro amici raccontano con il dono più prezioso che hanno ricevuto: la musica.»
Gli undici brani scorrono via come una sorta di sinfonia distesa tra jazz melodico e pop elegante, alla Coldplay per intenderci, e si susseguono in un continuum emozionale che scorre senza virate forti, che vola in un climax espositivo coinvolgente fin dall’iniziale title-track, che si alimenta di una sensibilità compositiva piena che ricorda quella del migliore Pat Metheny oppure del più intrigante Dave Grusin. Un racconto sonoro circolare, quasi colonna sonora di un film che per ogni ascoltatore diventa suo personale, unico, profondo e vivo, con l’importante grande pregio di non proporre mai una frase o una costruzione a effetto, che, si sa, in ogni ambito per loro natura tendono a semplificare quel che semplice non è.

Madalena

Madalena
Briza (Alfa Projects/Egea)
Voto: 7/8

Tornare alla musica a cinquant’anni e farlo proprio bene. Perché sono “anni in cui la riflessione sul sé diventa un’esigenza di vita; anni in cui alla creatività biologica può seguirne una nuova, tesa a concepire idee ed emozioni estetiche”, come annota Madalena sul booklet. La napoletana Maddalena Pennacchia, di professione docente di letteratura inglese, con tutto quello che precede e segue di pubblicazioni, consulenze e attività correlate, presso l’Università di Roma Tre, corona il sogno di gioventù, quando il grande e compianto chitarrista Irio De Paula, ascoltandola cantare, la apprezzava con quello che è diventato il suo nome d’arte.
Infatti in Briza, appellativo preso da una pianta, l’erba sonaglina, diffusa nel bacino del Mediterraneo e in vaste regioni del Brasile, debutta come interprete, proponendo un repertorio (a eccezione dello strumentale di chiusura, Skylark del grande compositore americano Hoagy Carmichael) di altissimo livello di MPB, musica popular brasileira, e di bossanova. Brani che fanno tremare i polsi, firmati da giganti come Chico Buarque, Ivan Lins, Edu Lobo, Dorival Caymmi, Djavan e Pixinguinha, che Madalena affronta con la semplicità dell’appassionato e risolve con la duttilità espressiva di una voce ricca di sfumature e di eleganza, di leggerezza e di allusioni. Il tutto sostenuto da un trio jazz agile e sofisticato con Stefano Nencha alla chitarra e Stefano Nunzi e Alessandro Marzi ai ritmi, e dagli interventi puntuali e ricchi degli ospiti Nicola Stilo al flauto ed Eddy Palermo alla sei corde. Da segnalare infine come il canto riesca anche – c’è lo zampino dei colleghi docenti di portoghese – a non avere quella sotaque, “cadenza straniera”, che tanto disturba gli ascoltatori madrelingua.

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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