in uno stile d’oro dove danza il languore del sole
Paul Verlaine
L’estate del 1978, e ancor più quella successiva, fu contraddistinta per me dal suono inevitabile della Fender di Tom Verlaine.
Le sue trame fitte e liriche, e le tessiture armoniche imprevedibili che esse sciorinavano davano un’idea nuova e impensata del chitarrismo. Si poteva dunque unire in un unico flusso pregiato ma anche minimale tutto il firmamento del rock col più lirico afflato della poesia. Allora la melodia non era più una faccenda di leggerezza eccessiva, non lo zucchero dal quale si credeva di dover prendere le distanze. La melodia era semplicemente lo stadio più alto al quale giungere per vie nobili e intelligenti, fuori dai generi e dalle stagioni in cui si soleva suddividere la musica che chiamavamo per comodità “rock”.
Se leggevi i poeti maledetti che ti avevano scorticato i sensi e liquefatto il pensiero, e ti avevano fatto sentire al tuo posto in una posizione contraria al mondo intero, per via dei tuoi soli diciotto scomodi anni e per il senso amaro della storia nella quale già allora si viveva clandestinamente, allora la musica dei Television, l’essenzialità elegante e gentilmente acuta, la forza geometrica e insieme poetica delle chitarre di “Marquee Moon” diventavano la soluzione per compensare all’angoscia. Come un’equazione fin lì pensata impossibile poi risolta nel più naturale e intenso dei modi. Come stendere una mano sola e toccare un cielo ritenuto inarrivabile.
La chitarra era dunque non solo una meta, bensì un mezzo estetico di inestimabile valore per assurgere al meglio che si potesse nell’intrepretazione stessa delle cose.
Tutto questo fu per una parte essenziale ma determinante del mondo delle idee la comparsa di Tom Verlaine e dei “suoi” Television.
La magrezza da noi percepita bellissima delle sue mani e delle braccia, lo scavamemto del viso giovane ma in qualche misura sofferente, l’essenzialità degli abiti di tutti loro, non avevano niente a che vedere con le esagerazioni e gli orpelli, con le maschere di cerone o le capigliature volutamente ricercate tipiche dell’esplosione anche visiva, prima del punk rock, poi della wave. Niente abbigliamenti vistosi, né alcuna altra ostentazione: risolvevano come ho detto nel più semplice dei modi la questione del fare musica e del come mirarla dritta al cuore del mondo stesso.
E poi, oltre le trame ritmiche delle chitarre quasi prive di distorsione, oltre i parossismi equilibristici delle sue parti solistiche, oltre le strutture armoniche delle canzoni, capaci di tenere alta anche una sequenza armonica elementare, cosa alquanto trascurata, vi era una voce semplice ma rivelata, dedotta dal miglior rock sin lì ascoltato, ma portata ad una sintesi magnifica. Semplicemente bella come bella sa e può essere una voce che fa intendere la giusta misura tra pathos ed essenzialità. Una voce adolescente, ma anche quella di un uomo che soffre già la bellezza del vivere, come il suo peggio.
Come se Mick Jagger si fosse iscritto ad un corso di filosofia esistenziale rimanendone imbevuto nell’essenza. Come se Jagger cantasse Marcuse o lamentasse i versi più sottili dell’Inferno di Dante, e lo facesse non solo per stupire emanando sessualità animale, ma bensì per scavare il fondo dell’animo. O infine come se i Rolling Stones avessero di colpo capito tutto ciò che ci fosse da capire tra passato e futuro e in un sommo di rivelazione trascendentale fossero saliti all’empireo del significato.
Tutto questo ed altro è stato Thomas Miller, in arte Tom Verlaine, prima con i suoi compagni, poi in solitudine, che ha voluto forse prendere in prestito il cognome da un grande vinto invincibile della poesia, quel Paul Verlaine del simbolismo francese, post adolescente postosi in poesia con pochi altri contro il mondo intero. Quando mettersi contro il mondo era non una posa bensì una scelta interiore, dunque poetica, quindi necessaria.
Per sé e per il mondo stesso.
Il mondo non sarà più lo stesso dopo quei passi, né sarà la stessa cosa ora, dopo che si sono spente certe voci uniche.
Tocca solo compiere nuovi passi, come eredità di tanta poesia.