Ora che il polverone dei necrologi di circostanza si è un poco posato, posso raccontare la mia esperienza umana ed artistica con Alberto Radius, uomo semplice che ha voluto abbracciare chitarra e musica come riscatto ad un profondo senso di inadeguatezza rispetto al mondo stesso.

Di Radius posso ben dire, avendo condiviso con lui e il mio gruppo di allora ben due album. Ovvero, Alberto Radius figura come produttore artistico di due diversi album usciti a nome Underground Life. Cioè il mio passato importante. Cioè il mio passato ingombrante. Il mio passato. Sappiamo tutti che il passato non passa affatto, e ciò che abbiamo condotto o attraversato o esperito o subìto sarà sempre parte di noi e del nostro corredo cellulare. Quindi inutile tentare di eliminarlo o eluderlo: questo torna e ritorna, in diversa veste e in diverse forme, in momenti diversi. Il passato è. Il mio Maestro Emanuele Severino, parlava degli Eterni Trascorsi, ovvero di ciò che non è mai potuto passare, e mai passerà. Una sorta di proseguo del presente che da ieri si è mutato in oggi e presto sarà già domani. Per questa via, nessuno muore né mai è nato.

   Intanto però nel mondo fenomenico sono scomparsi molti individui, (e di recente più spesso che mai), importanti per ciascuno di noi, qualcuno di più, altri un po’ meno, ma rimane il fatto che a quanto pare, si va. Questo è direi il punto centrale: oggi più che mai, in mondi di mascherine, divieti e obblighi e inquietante proliferare di farmacie, in un mondo ospedalizzato insomma come non mai, occorre fare il punto su un fatto imprescindibile: si muore, e non vi è scienza medica che possa evitarlo ad alcuno. E sia detto ciò solo per ricordarlo, perché sembrerebbe come incistata nelle coscienze la rimozione dell’evidenza fondamentale, e cioè che la vita comporti sempre e comunque il fatto di declinare ad un certo punto in un passaggio finale misterioso. Lo si accetti, infine, e sarà più lieve per tutti il vivere.

Così, solo per citare individui speciali, David Bowie, sembra incredibile, è passato. Severino, amato pensatore, è passato, è andato Jeff Beck, Franco Battiato ha attraversato il Bardo, e via così, la lista è lunghissima, lo sapete, lo sappiamo tutti. La rete martella per diverse ore ad ogni illustre trapasso, cosicché tutti possano o debbano immancabilmente venire a sapere che quel tal celebre individuo è passato a miglior vita. C’è in questo un che di morboso e persino commerciale. Mentre io, a dire il vero, farei volentieri a meno di unirmi alla ridda di commemorazioni, e troverei più interessante e utile che ci facessimo altre domande sul nostro tempo.

Tuttavia di certi individui non si può non dire, specie se questi hanno preso parte in una qualche misura alla nostra vita.

Quindi, dimenticandoci per un attimo di coloro che, più che invitati, sono stati o sono tuttora costretti a fare il passo in seguito a scelte scellerate commesse da chi “comanda”, meglio stringere la visuale alle persone care andate per altra via.

Per quanto mi riguarda ora, così dispiaciuto ed anche vergognoso di occuparmene in occasione purtroppo della sua morte, avendo legato a lui una fetta importante del mio passato, dirò qui di Radius.

  Già il suo cognome mi intrigava quando da ragazzino ne ascoltavo i passaggi serali presso una trasmissione televisiva*, una specie di radio in tivù in cui, oltre a fare sentire i brani, i musicisti invitati si esibivano spesso in modo molto casalingo dal vivo, voce e chitarra.

Questo riccioluto Radius, oltre a sembrare molto esperto con la chitarra Ovation (da me in seguito e per sempre detestata, ma non è questa la sede per spiegarne il perché), ispirava una certa simpatia naturale, sembrava cioè una persona normale: non colta, non in grado di esprimersi in modo particolarmente felice, ma anche non ruffiana; una persona, diremo, dotata di quella saggezza popolare in mezzo alla quale io sono cresciuto, giacché, trovandomela impersonata in un tizio con chitarra in televisione, ed avendo tale personaggio un cognome così intrigante, mi piacque.

  Furono anche gli anni in cui scoprivo la grandezza intrinseca di Battisti, (non cioè quello ritenuto da spiaggia secondo un becero luogo comune, ma quello più sostanzioso, di cui dovrò dire anche stavolta in altra sede), e avendo quasi contemporaneamente scoperto che Radius avesse con il Battisti incrociato più di un lavoro, tanto in studio quanto dal vivo, la simpatia per il Nostro fu arricchita da questo elemento non certo di seconda importanza.

Parte quindi la mia simpatia, non alimentata particolarmente dalla sua produzione musicale in generale, ma ben sostenuta dalla pubblicazione in quel periodo di “Nel Ghetto”**. “Io non ho un partito, non mi basta il sindacato, un lavoro non me l’hanno mai trovato” recita una strofa della canzone, e questa leggerezza popolare, qui sì un tantino ruffiana, nell’ammiccare su un ritmo pericolosamente “dance-rock” a una visione dal basso della vita politica e sociale, mi convinse di più della sua bontà di fondo. C’era del buono, avvolto in una sostanziale fame di riuscita. Tuttavia, forse proprio per ciò che ho detto sopra, lo persi di vista facilmente. Dalle mie parti, fare la musica d’avanguardia, era tutta un’altra cosa, e i miei diciassette anni erano furentemente critici.

Lo persi. Per ritrovarlo nelle note di copertina delle prime prove “leggere” di Franco Battiato. Quel “L’era del cinghiale bianco” porgeva indubbiamente qualcosa di più dell’approssimazione letteraria di cui Radius aveva dato prova nei suoi brani, ma se lui poteva far parte di quella compagine artistica di lusso, voleva dire che l’astuzia e il fiuto della genialità albergavano nel suo Dna. Radius fu infatti paladino attivo del periodo di esplosione dell’arte di miscellanea tra colto e popolare messa a punto dal Battiato dei primi album di conversione al pop. E se è vero che personalità significative come Giusto Pio, Messina, Colombo e altri avevano avuto una parte fondamentale negli sviluppi delle canzoni del siciliano che si sarebbero stampate nella coscienza melodica degli italiani tra il 1978 e il 1985, non può sfuggire che chitarre e basso di molte di quelle composizioni portavano il marchio di Alberto Radius.

Che ci si fosse trovato per caso e avesse saputo crederci, che lo abbia fatto solo per mestiere, che ci avesse creduto subito, o semplicemente perché le cose vanno come devono andare, fatto sta che Radius passa alla storia almeno due volte, prima per le chitarre con Battisti, poi il lavoro in studio che ha creato l’esplosione popolare di Battiato.

E questi sono fatti indiscutibili.

  Poi accade che qualche anno dopo io finisco nei suoi studi milanesi, in quel Radius Studio che aveva visto nascere appunto quei celeberrimi dischi di Battiato, di Alice, Giuni Russo, di Faust’O, e moltissimi altri, e il disco che ne esce***, prodotto da Radius, finisce grazie a lui nelle mani di Angelo Carrara, che era allora una sorta di patron della musica italiana leggera di qualità.

Le settimane in cui ebbero luogo le sessioni di incisione a Milano furono, inutile dirlo, memorabili. E se lo furono, accadde per via di molte svariate ragioni, tra le quali la giovinezza della compagine da me maldestramente guidata, l’eccitazione di quella prova, la libertà da ogni vincolo e il bisogno unico di dare fondo alla più curiosa vena conoscitiva. Tutto era nuovo, diverso da come potevi immaginarlo. Tutto era soprattutto inventato lì per lì. Nascono probabilmente così le cose che più si affermano come significative: da un incredibile, impensabile, inventato gioco di combinazioni che scoprirai solo dopo essere state combinazioni felici. Al momento, mentre le vivi, non lo sai.

   Radius, né più né meno come lo avevo in fondo immaginato, era uomo semplice ma furbo, elastico, un falco bonario pronto all’azione. Era quello che si dice un tipo alla mano, diretto, facile alla battuta, e per quanto insistesse nel dichiararsi milanese di nascita, era irrimediabilmente romano, romano sia di parlata sia di spirito.

Per lui io ero “il professore”, e come nel mio caso altri epiteti fiorivano di volta in volta diretti ai vari membri del gruppo. Tuttavia in quelle sedute Radius non partecipò mai direttamente al suono. Del resto a me le sue chitarre elettriche, da convinto assertore del suono Telecaster, apparivano un po’ sinistre; nel mio caso si risolveva tutto nel rapporto tra chitarra e amplificatore, nel suo era tutto un fiorire di Jackson, di Charvell, di Hamer e di Ibanez, dalle quali far scaturire un ingombrante profluvio di assoli, passaggi puntati, armonizzazioni, reverberi, sovrapposizioni improbabili di differenti livelli di suono. Mondi davvero troppo distanti, ridondanti e rocchettari rispetto allo stile asciutto e ritmico nel quale mi identificavo io. Quanto alle acustiche, comparivano nelle sue mani delle rozzissime Washburn, rigorosamente spalla-mancante, cioè l’esatto contrario di quanto io potessi ritenere desiderabile in una chitarra acustica. Insomma, io, arrogante venticinquenne proletario dalle aspirazioni poetiche e lui, un cinquantenne rodato e popolano, risultavamo praticamente agli antipodi. Ma con una certa simpatia reciproca.

  Producemmo quel primo disco e, convinto del materiale, fu lui a portarlo agli “alti vertici”, gli uffici del Carrara. Mi chiamò una mattina nel suo di “ufficio”, che era poi costituito da una scrivania in un angolo dello Studio, e mi disse una di quelle frasi che si ricordano poi per sempre. Ognuno di noi ha scolpito nella mente certe parole che si sono manifestate come spartiacque in seguito per il proprio corso degli eventi. Le mie con Radius furono: – Qui ci vuole il Carrara di turno -. E Carrara fu. Fu il contratto e la licenza EMI e fu in seguito tutto un altro viaggio, per quanto le tempeste non sarebbero mancate.

Poi un’ennesima eclissi di anni.

Il disco successivo avrebbe dovuto essere prodotto da Carrara, con grande soddisfazione di Radius, ma le cose vanno un po’ come sta scritto da qualche remota parte, e Carrara scomparve dalla circolazione poiché, si diceva, fosse ammalato. Passò del tempo, finché fu chiaro che si dovesse cambiare rotta, e sfumata l’occasione di proseguire quella collaborazione che era sembrata, per quanto a fatica, proficua per tutti, così facemmo. A me accade così, cerco di proseguire seguendo il mio intuito, evitando di insistere se ciò che è stato una volta interessante si rivela non più tale.

La seconda volta che incrociai i ricci ora divenuti brizzolati di Radius e la sua inconfondibile fisionomia, fu diversi anni più tardi, sul principio dei novanta. Lo Studio era rimasto nella stessa strada, sebbene all’interno si fosse allargato e aggiornato quanto a macchinari, e facessero la loro trionfale comparsa i primi Apple dialoganti col mixer proveniente da chissà quali paradisi tecnologici sparsi per il globo. Radius era sempre lo stesso, e ripensando oggi al fatto che in una intervista di non molto tempo fa lui stesso si sia definito come una sorta di avventuriero, trovo in uno sguardo a ritroso che questa immagine in fondo gli calzasse.

  Se ne stava là, nel suo Studio divenuto sempre più una fortezza, alla ricerca continua di un nuovo colpo micidiale da mettere a segno, ma in verità impegnato a difendersi da un mondo che fuori peggiorava di settimana in settimana; eventi difficili, incomprensibili, nemici del gusto, della politica, nemici della buona musica, nemici persino della salute, si addensavano ovunque nel mondo, mentre in quella specie di ventre materno, in una quella protesi milanese della sua abitazione che stava opportunamente fuori porta, nel verde, lui proferiva sentenze e improperi su quanti stavano lentamente distruggendo la sua idea sana e rimasta adolescente della musica.

Produsse quello che sarebbe poi stato il nostro ultimo album****, e lo fece intervenendo questa volta in maniera massiccia ed esclusiva, eliminando a piè pari la figura del batterista, in un colpo solo sostituito da un programma elettronico, e trasferendo quasi per intero sul computer ogni parte di tastiere, tanto che allo spettro sonoro rimasero ben pochi margini di verità, affidati unicamente alla mia sola voce, alle mie chitarre, a qualche linea di basso e infine, soprattutto, a un gran numero di chitarre suonate direttamente da lui.

Le chitarre temibili che tanto avevo per questo e giustamente temuto facevano quindi inesorabile ingresso nelle mie canzoni.

Fu così che un reggimento varipinto di acutissime Charvell, improbabili Jackson e adolescenziali Ibanez dalle forme più inventate, accanto a qualche dignitosissima Gibson vintage, si impressero nel nastro che portava la mia firma come autore e figurava a nome del mio gruppo. Nessuno di noi osava contraddire la direzione che il disco prendeva di settimana in settimana, e i pranzi condivisi nelle pause presso un ristorante di second’ordine a portata di Studio non facevano che rafforzare l’idea che ci si era fatti di quell’uomo. Un figlio del popolo, infilatosi per miracolo tra le fila degli arconti. Nelle sessioni non mancò neppure l’odiata acustica Washburn, incubo fattosi strumento alle mie orecchie, che tuttavia nell’incisone guadagnò molto spessore, mentre fui graziato perlomeno dall’assenza delle ormai tramontate Ovation. Ma appunto, credetti, assenti solo perché tramontate.

  Poi, tra quintali di differenti tracce delle chitarre citate, accadde il miracolo: fece la comparsa un giorno una strepitosa Chitarra-Sitar, rarissima e dal suono immaginifico. Credo si trattasse di una Danelectro, ma non potrei giurarlo, mentre posso giurare che quello dell’incisione fu uno dei momenti più commoventi dei miei trascorsi in studio. La canzone era “Signora dei Gigli”, e l’eleganza che seppe conferire alla parte Alberto Radius, guitto e avventuriero della musica popolare, irresistibile parvenu nel panorama del pop più significativo, colui che tentava di convincermi che il vero Battisti doveva considerarsi solo quello con il quale aveva lavorato lui, quel chitarrista imprestato così di sbieco alla mia traversata difficile del mare magnum della musica, diede al mio brano il tocco dorato. La canzone per incanto prese nelle sue mani, e inaspettatamente, la forma desiderata e di più, la forma ideale.

  Se mai avessi dovuto scegliere di incrociare Alberto Radius anche per una e una sola parte in un mio brano, quella parte non avrebbe potuto avere altro che quel suono cristallino ed evocativo di Chitarra-Sitar, nella quale potevi sentirci riecheggiare le migliaia di ore di musica altrui assorbita, inventata e metabolizzata, il suo amore bambino per la chitarra e il salvataggio che quello strumento aveva saputo fare della sua stessa vita.

E ora che la sua vita se n’è andata per un altrove che non sapremo mai, quel ricordo goffo e buono, insieme a quel suono speciale a me basta per portarmi appresso la sensazione vitale che la musica non sia che un incidente ancestrale nel viaggio inconsapevole che noi tutti compiamo. E so che si può essere guitti, si può essere stranieri ovunque, e sempre, tranne in quello scintillìo potente e fugace che ci riporta dritti a casa.

citazioni: * Il programma “Un peu d’amor, d’amititié et beacoup de musique”, andato in onda su Tele Radio Montecarlo, tra il ’74 e il ’80, condotto da Vj Jocelyn/ ** “Nel Ghetto”, singolo tratto da “Carta Straccia” di Radius, 1977, CGD/*** “Filosofia dell’Aria” di Underground Life, 1987, Target-EMI/**** “Questo Soave Sabba” di Underground Life, 1992, Lilium.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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