Sir Kazuo Ishiguro, lo scrittore inglese di origine giapponese Premio Nobel nel 2017, diceva in una recente intervista: «Può darsi che invecchiando io non diventi più saggio. Trovo ancora facile, in un modo quasi disturbante, assumere la voce di personaggi ingenui. Ero molto più convinto di avere le risposte giuste a 19 anni. Ma forse non c’è contraddizione. Forse, diventando più saggio, divento più consapevole di quanto tutti siamo ingenui. Abitiamo il nostro piccolo mondo circostante, in cui ogni cosa ci risulta famigliare, mentre il mondo esterno si svela sempre più complesso. Possiamo affrontare i giorni solo fingendo di sapere molto più di quello che sappiamo.»
Mario Pio Mancini è un “vecchio saggio” della musica tradizionale di contaminazione di casa nostra, fondatore degli Indaco nel 1992, insieme a Rodolfo Maltese, il compianto ex-chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso (formazione seminale del progressive italiano). Proprio il confronto tra saggezza e ingenuità – entrambe tipiche dell’espressività dei canti e dei suoni provenienti dal patrimonio universale di estrazione popolare – è stato il suo faro artistico da sempre, che ha risolto facendo sposare generi musicali di ogni provenienza e di ogni tipologia in un flusso sonoro che ha fatto del suo gruppo uno dei grandi ensemble della world music mondiale.
Dopo mille peripezie, che hanno visto la band attraversare alti e bassi, momenti in cui ha vantato la collaborazione di personaggi del calibro di Antonello Salis, Francesco Di Giacomo, Mauro Pagani, Andrea Parodi, Paolo Fresu e così via, ad altri in cui si è divisa in tronconi – i Nu Indaco, gli Ypsos, gli Indaco Project … – per questioni estranee alla musica, l’ensemble ha di nuovo imboccato la “retta via” alcuni anni fa, grazie all’incontro con la deliziosa arpista e cantante Valeria Villeggia e con il chitarrista, produttore e arrangiatore Jacopo Barbato. La strada è la stessa tracciata antan: esplorare la complessità dei sentimenti che si affollano nel cuore delle persone comuni grazie all’innocenza di musiche senza tempo e senza confini, riproposte, miscelate e attualizzate con un sapere artistico che più si fa profondo e attento più riscopre il valore e significato di quella ingenuità originaria che le ha espresse. È il valore intrinseco della “musica del mondo”, patchwork coloratissimo e “impuro” di tasselli viventi, che riutilizzano creativamente la miriade di impulsi e suggerimenti, di proposte culturali e semplici divertimenti, di delicatezze e passioni, che costituiscono il grande fermento di musiche – quelle di tradizione popolare – tutt’altro che “fuori dalla storia”, per aggiornarle con i suoni e le idee dei generi più attuali.
Dopo Mediterraneo Express del 2019 che ha messo a punto gli sviluppi espressivi dalla nuova line up degli Indaco, ecco Due mondi, intenso, limpido, evocativo, sia nella proposta musicale che in quella lirica. «Questo disco nasce in un periodo di pandemia e poi di guerra: sono argomenti da cui non siamo riusciti a scappare», dice Villeggia. «Li abbiamo presi di petto, tanto che c’è una vera e propria suite sulla guerra. Ne abbiamo parlato un po’ a modo nostro. Il titolo stesso, Due mondi; che sembra inclusivo, che contempli grandi possibilità, in realtà vuole parlare di quello che succede dopo grandi eventi come questi, durante i quali tutto si polarizza: c’è il bianco e c’è il nero, punto. Sembra che le sfumature non servano più. Ci viene chiesta un’opinione su tutto, ma deve essere sempre netta, non esistono più le scale dei grigi. Questo futuro così orientato ci spaventa un po’, allora lo abbiamo esorcizzato a modo nostro. Abbiamo parlato di un universo pieno di colori e sfumature, che è il nostro, musicale, culturale, crocevia di mondi diversi.»
Apre il ventaglio sonoro il programmatico Kali, un brano dove c’è di tutto, c’è Napoli, l’India, un po’ di electro, un po’ di jazz con il sax di Fabio Mancano, è una grande fusione di culture musicali. A seguire il cd transita sui binari di percorsi eclettici che portano in giro per il Mediterraneo e per i Balcani, che volano da Napoli fino all’India, che esplorano Spagna e Medio Oriente, varcando frontiere con il privilegio della fantasia e l’ottimismo del cuore sereno. Specie in brani come la malinconica e onirica Earth, immersa nella nebbia ancestrale del duduk di Renato Vecchio, la ballata intensa e luciferina M’ha criete Dije, ispirata da pensieri di morte, e l’elettroacustica e lirica Oikos, dedicata al Lazio, terra di vulcani spenti, di acque blu, di uva bianca, in cui “non prega nessuno”. E ancora la beneaugurante Riturnari a jucari, che si apre con un inedito dialogo tra scacciapensieri e arpa, firmata e cantata dal batterista Maurizio Catania (il suo alter ego al basso è Maurizio Turriziani), e la poetica, bellissima Quanno è sera, legata a una leggenda nordica sul dolore e le donne.
Da segnalare, last but non least, i contributi degli ospiti: il percussionista Arnaldo Vacca, che aveva fatto parte del gruppo fino al 2003, i cantanti Enzo Gragnaniello, partner già in altri cinque album, e Graziano Galatone, e la fisarmonica di Desirée Infascelli.

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Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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