Michele Bovi: «Lucio Battisti: un uomo spocchioso, un artista immenso»

Michele Bovi, giornalista e saggista, già dirigente Rai, inventore di Eventi Pop e Techetecheté, che conobbe il cantautore e che è riuscito a comunicare correttamente con gli eredi, in questa intervista racconta i retroscena delle trattative tra l’artista e i discografici, le controversie riguardanti la moglie, l’impegno per l’esordio come cantautore del figlio Luca, la disputa per i provini inediti e i 12 anni di lavoro con Velezia e Pasquale Panella cancellati dall’invadenza di Mogol.

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Una copertina di "TV Sorrisi e Canzoni" con Lucio Battisti e l'allora fidanzata Grazia Veronese

«Luca Battisti, il figlio di Lucio, doveva esordire come cantautore nel 2004 in un programma di Raidue», racconta il giornalista Michele Bovi. «Ero stato inviato dalla RAI a Milano nella veste di capostruttura della Rete Due, con la principale missione di restituire spazio e operatività alla sede di Corso Sempione. Tra Quelli che il calcio e La talpa, tra Notti europee e Stelle con la coda, riuscii anche a piazzare una serie di appuntamenti di particolare soddisfazione, tutti in seconda serata: Eventi Pop e I 60 a colori che curavo personalmente, Nati a Milano affidato a Edmondo Berselli e Romano Frassa con la conduzione di Giorgio Faletti e il primo programma della RAI in virtual set: Galatea, un rotocalco di arti varie presentato da Barbara Ortelli per il quale avevo selezionato una squadra di eccellenti autori: Tommaso Labranca, Dario Baudini, Lucia Castagna e Roberto Avvignano.

La sigla di Galatea doveva avere la musica e la voce di Luca Battisti, il figlio di Lucio. Mario Cantini, leggendario editore della RCA Italiana, mi aveva fatto ascoltare un cd con 14 provini dell’artista, tutti pezzi composti e cantati da lui in lingua inglese. Alcuni brani erano davvero piacevoli, sonorità che ricordavano i Beatles, eseguiti con slancio: voce interessante e vivace accompagnamento di chitarra. Potevano funzionare filtrati da un arrangiamento adeguato e una realizzazione di qualità. Tra i provini scelsi una canzone per la sigla di Galatea e d’accordo con la signora Battisti, proprietaria delle edizioni, feci formalizzare la richiesta dalla RAI.»

Però poi non se ne fece niente. Cosa accadde?
«Si aprì la trattativa tra i Battisti e la BMG per la realizzazione dell’album. Roberto Gasparini, direttore della casa discografica, mi ha detto che Luca voleva registrarlo a Londra, come faceva il padre. E fin lì nessun problema. Gasparini però pretendeva che tra i brani ce ne fossero almeno tre cantati in italiano e che Luca garantisse la disponibilità per un’intensa promozione. I Battisti non erano d’accordo, inoltre chiesero un anticipo sui ricavi che il dirigente della BMG ritenne spropositato. Il progetto tramontò e con esso il debutto di Luca nella sigla di Galatea.»

Ne scaturisce un Luca Battisti identico a suo padre: già nell’eventualità dell’esordio poneva ai discografici le stesse condizioni e gli stessi ostacoli…
«Luca, e soprattutto sua madre Grazia, indubbiamente seguivano gli ammonimenti di Lucio: ovvero “artisti e autori vanno tutelati dai vampiri dell’industria discografica”. Le trattative erano sempre difficili. Lucio a priori non si fidava. Franco Reali, amministratore delegato della BMG Ricordi, mi ha raccontato che, dopo una delle tante estenuanti contrattazioni, aveva deciso di accontentarlo: “ok Lucio, adesso ci faccia ascoltare i brani del nuovo disco”. E l’altro: “perché? Che cosa cambia se li ascoltate?” Insomma non riconosceva autorità, autorevolezza e mansioni della controparte. Reali la prese male e disse basta. E Battisti incise La sposa occidentale con la CBS.»

Addirittura rifiutarsi di far ascoltare i suoi provini al discografico. Malfidato a oltranza?
«Nello specifico non aveva tutti i torti. In quegli anni dagli archivi della BMG, negli storici stabilimenti capitolini di via Tiburtina, dipendenti disonesti trafugarono provini di Claudio Baglioni, Renato Zero, Patty Pravo, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Eros Ramazzotti, Riccardo Cocciante e altri, tutti destinati alla criminalità organizzata che li vendeva in musicassette sulle bancarelle dei mercatini romani e napoletani. C’erano anche diversi inediti di Battisti tra i quali Il paradiso non è qui rimasto fuori dall’ultimo album scritto con Mogol, Girasole scritto assieme alla moglie, Il bell’addio e Il gabbianone composti con Pasquale Panella. Franco Reali non aveva colpa, anzi aveva fatto arrestare un dipendente colto con le mani nel sacco. Ma è comprensibile la diffidenza di un artista riservatissimo, che pretendeva l’assoluto rispetto della privacy, che aveva scelto di abbandonare la scena.
Una scelta pagata di tasca propria: rifiutare di mostrarsi, di promuovere i dischi, di concedere la propria immagine a media e copertine degli album era antieconomico. Eppure preferiva così, pur di affermare il proprio disegno artistico. La celebrità lo esasperava. Una volta il direttore della BMG Roberto Gasparini andò a trovarlo per lavoro nella casa di Dosso di Coroldo. Ad accompagnare Gasparini c’era Antonio Coni, che passava per essere il più fidato collaboratore di Lucio. Ciononostante appena entrato nel parcheggio dell’abitazione Battisti gli chiese di aprire il baule dell’auto: voleva sincerarsi che non vi fosse nascosto un fotografo.»

Gli scontri con i discografici però riguardavano soprattutto le percentuali di profitto.
«Sì. Lucio non ammetteva sconti, diceva: “chi vuole la mia musica sa dove trovarla e qual è il prezzo giusto per averla”. Quando dal 33 giri in vinile si passò al cd ci vollero mesi di negoziati per fargli accettare la riforma delle condizioni: il nuovo supporto era in fase promozionale pertanto con profitti minori destinati all’artista rispetto al disco. Dopo la sua scomparsa tutto è degenerato. Da quando i meccanismi di sviluppo sono radicalmente cambiati e discografici ed editori si rivolgono alle piattaforme web per realizzare guadagni, con gli introiti di artisti e autori ridotti al lumicino, Grazia e Luca Battisti sono in guerra con Universal Music e Sony.»

E con Mogol, l’altra firma del repertorio più amato dagli italiani.
«Sì, anche con Mogol, sensibile alle sempre elevate richieste del mercato e propenso al completo impiego del catalogo: d’altronde ogni canzone di Battisti contiene per metà il suo ingegno. È una disputa pertinente al diritto d’autore. La posta è lo sfruttamento economico dei brani, per le sincronizzazioni di prodotti audiovisivi, per la pubblicità: la signora Battisti vorrebbe proseguire a rifiutarsi di concedere autorizzazioni se non pienamente convinta di ogni singola utilizzazione: che tipo di prodotto deve reclamizzare la canzone, in quale scena del film o di altra opera deve servire da sottofondo, mostrando la stessa determinazione del marito nel negare sconti per l’ascolto dei suoi lavori.»

Battisti sulla copertina dell’LP “la batteria, il contrabbasso, eccetera”

Grazia Veronese Battisti è dipinta come un’arpia ostinata e litigiosa…
«Il pittore è soprattutto Mogol. I due non si sono mai amati e per lui è un gioco da ragazzi intingere il pennello nell’ostilità. Dalla scomparsa di Lucio lei è stata promotrice di una serie di controversie che ha finito per comprometterne l’immagine, fino a farla percepire come una sorta di Yoko Ono italiana. A Yoko Ono è almeno riconosciuto il valore aggiunto di artista; Grazia Battisti è soltanto La Vedova. L’ostinazione nel difendere la volontà e l’opera del marito l’ha trasformata in un unanime bersaglio: ciò che con Lucio in vita nessuno si era mai azzardato a fare è diventato prassi elementare dal settembre del 1998. Lucio non piaceva ai giornalisti, perché li teneva a distanza, si negava, non rilasciava interviste, zero dichiarazioni, zero commenti. Su di lui ancora oggi sussistono fisime ampiamente demolite dalla realtà dei fatti, come quella che fosse bravo nelle registrazioni in studio, ma impacciato, disarmonico, stonato dal vivo, malgrado vengano periodicamente riproposte le immagini di due suoi live straordinari: solo alla chitarra che esegue Eppur mi son scordato di te e con Mina nel duetto-medley più rivisitato nella storia della televisione italiana.
Si legge che non riuscì ad affermarsi negli Stati Uniti a causa della scadente pronuncia inglese. Un’idiozia. Abbiamo mai avuto cantanti italiani disinvoltamente anglofoni? La verità è che agli americani non piacque il suo stile: da un italiano si aspettavano melodia e gorgheggi. E magari non piacquero nemmeno i testi delle sue canzoni, che Mogol si ostinava a far adattare dal devoto Peter Powell piuttosto che farli rielaborare anche a costo di modificare i significati, come suggeriva la cantautrice e poetessa Marva Jan Marrow, collaboratrice americana della Numero Uno.»

Va detto che gli eredi si sono distinti per controversie di ogni tipo, anche grottesche, come la guerra alla statua di Poggio Bustone o le feste in memoria di Lucio a Molteno. Grazia è l’incubo dei direttori di giornale: proteste, minacce di querela e diffide ogni volta che si parla di lui. Telefonò a Gianni Morandi e a Pupo per insultarli, dopo che in televisione avevano interpretato dei brani del marito.
«Se a Porotto di Ferrara, dove nacque mio padre, l’amministrazione comunale decidesse di dedicargli un obbrobrio qual è, secondo me, la statua eretta a Poggio Bustone, solleciterei le rappresaglie degli anarchici. Le feste di Molteno valgono quanto le centinaia di commemorazioni che ogni anno vengono allestite per radunare gente e pubblicità in nome di un artista, da Enrico Caruso a Bud Spencer. In certi casi si tratta di iniziative serie, in altri di sagre della porchetta. Gli eredi, le istituzioni culturali andrebbero di volta in volta consultati per un confronto sulle tematiche. Nell’autentico rispetto dell’artista celebrato.

Fabrizio Frizzi e Mogol con Michele Bovi

Per quanto riguarda le diffide e le minacce di querela posso raccontare la mia personale esperienza. Su Lucio Battisti ho cominciato a confezionare dei Tg2 Dossier quando era ancora in vita. Lavoravo sui provini inediti, con sincronizzazione di immagini realizzata in montaggio, filmati catturati in televisioni straniere. Prima della trasmissione mi limitavo a indirizzargli un telegramma nella casa romana in cui annunciavo giorno e orario della messa in onda e i contenuti del programma. Mai ricevuto proteste. Dopo la sua scomparsa mi sono occupato talvolta di Battisti nei miei programmi e periodicamente ho sentito Grazia. Confronti, a volte non era d’accordo su soggetti o dettagli, ma senza minacce. Non ha un carattere arrendevole, ma è seria, diretta, perbene.

Su Morandi e Pupo è stata mia la responsabilità. Ero il capostruttura per l’intrattenimento di Raiuno quando, nel 2009, mandammo in onda lo show di Morandi Grazie a tutti. Sapendo del mio buon rapporto con gli eredi, Gianni mi chiese di lasciargli interpretare alla sua maniera un pezzo di Battisti. Stessa cosa accadde nel 2011 con Pupo, che tornava per il secondo anno a condurre I raccomandati assieme a Emanuele Filiberto: mi domandò se poteva confezionare un promo con la musica e la prima frase di Ancora tu (ma non dovevamo vederci più?). In entrambi i casi avrei dovuto chiedere l’autorizzazione degli eredi di Battisti, ma considerati i precedenti concilianti tirai dritto. Come previsto a me non giunse alcuna protesta, ma Grazia Battisti telefonò comunque a Morandi e a Pupo per reclamare maggiore rispetto verso il collega scomparso. Intendiamoci, non è soltanto lei a comportarsi così: per un fatto analogo anni prima Morandi era stato citato in giudizio da Francesco De Gregori.»

Però sempre nel 2011 le arrivò una diffida dagli eredi Battisti per Il paradiso non è qui
«Era uno dei provini trafugati dagli archivi della BMG. Lucio era ancora in vita, il nastro-pirata fu inviato inizialmente ai giornalisti Tullio Lauro e Leo Turrini, che fecero ascoltare la canzone nel programma Target di Canale 5. Giunse anche al mio indirizzo della RAI e utilizzai a mia volta la canzone prima in un Tg2 Dossier intitolato Canzoni Segrete e successivamente nella rubrica Costume & Società nell’interpretazione sia di Battisti, sincronizzata con immagini di repertorio, sia dei Fiori d’acqua dolce, un gruppo della scuola di Mogol. All’interno del servizio Mogol invitava in sostanza l’ex partner ad autorizzare il deposito del brano alla SIAE per farlo incidere ai suoi ragazzi. Lucio non protestò ma neanche consentì il deposito alla SIAE della canzone. Tuttavia il mancato assenso non scoraggiò il vecchio partner. Così nel giugno del 2011 nel programma destinato a Raiuno Le parole più belle con la conduzione di Fabrizio Frizzi, Mogol fece eseguire la canzone a Ron. E qualche giorno prima della messa in onda rilasciò un’intervista a Paolo Giordano per Il Giornale in cui annunciava l’intenzione di depositare Il paradiso non è qui alla SIAE. Una condotta che i familiari di Battisti giudicarono provocatoria.
La reazione fu una diffida a Raiuno di trasmettere il brano. In quanto capostruttura della prima rete, pertanto responsabile del programma, risposi che per legge dovevamo attenerci alla volontà degli eredi di Lucio Battisti: se dalla famiglia non fosse arrivata l’autorizzazione a mandarla in onda avremmo tagliato la parte in cui Ron cantava Il paradiso non è qui. L’autorizzazione non arrivò, così l’esecuzione di Ron fu sostituita dalla lettura del solo testo della canzone – quindi la parte di competenza di Mogol – affidata all’attore Remo Girone. Ma il programma non fu mai trasmesso, cancellato poco prima della data di collocazione in palinsesto (seconda serata del 23 giugno 2011) a causa di un contrasto amministrativo tra la RAI e il Centro europeo di Toscolano, la scuola di Mogol.»

Vince Tempera e Pasquale Panella con Michele Bovi

Perché tanto rigore verso Il paradiso non è qui? Mogol ha ragione: è un brano accattivante.
«È vero, anche la versione di Ron era suggestiva. Evidentemente, come i discografici che la esclusero dall’album Una giornata uggiosa, Lucio considerava quella canzone uno scarto di produzione. Il testo è molto efficace, ma descrive il disagio dell’emigrazione: nostri lavoratori in un paese di lingua inglese alle prese con odiosi luoghi comuni sugli italiani, usi e costumi inconciliabili, nostalgia d’amore. È probabile che a un anglofilo come Lucio, che aspirava di affermarsi negli Stati Uniti e pretendeva di registrare i suoi lavori in studi londinesi con musicisti e tecnici indigeni, quelle parole suonassero inadeguate.»

Dopo quella diffida ha sentito ancora la signora Battisti?
«Sì. Ci siamo anche incontrati a Rimini, prima per un aperitivo al Grand Hotel, poi a pranzo in un ristorante sul porto canale.»

E Lucio l’ha mai incontrato?
«Sì, due volte. Ma non ero un giornalista. Suonavo il sassofono nel gruppo Le Pecore Nere e Battisti venne a trovarci mentre facevamo le prove da Cherubini, un negozio di strumenti musicali sulla Tiburtina. Lucio e Mauro Chiari, il nostro bassista, avevano suonato insieme nella band Gli Svitati di Leo Di Sanfelice. Ho rivisto Lucio un anno dopo a Milano, nell’Hotel Sorrento in piazza Castello. Era una pensione che ospitava soprattutto musicisti: io ero con i Baronetti e ci esibivamo al Bang Bang, Battisti venne a trovare i componenti della Formula Tre, di cui era il produttore, che dovevano partecipare a Settevoci, il programma di Pippo Baudo. Pranzammo tutti assieme.»

Non diventaste amici?
«No. Io ero un ragazzino, lui già una personalità nel panorama musicale. Interveniva solo lui. Io non ricordo di avergli rivolto una parola. Non mi era neanche molto simpatico, lo trovavo spocchioso. L’ho raccontato anche alla moglie ma non mi ha creduto, tanto è abituata a sentire gente che sproloquia del marito: ho conosciuto Lucio là, era molto amico mio, lo consigliavo, abbiamo fatto tante cose insieme, l’ho aiutato a diventare famoso e giù con frottole e panzane.»

Un uomo spocchioso. E dell’artista che pensa?
«Il più grande degli italiani, superiore anche a Domenico Modugno

È stato il suo prediletto?
«No, preferisco Sergio Endrigo, Edoardo Vianello, Don Backy, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Simone Cristicchi. Ma Battisti era un talento estremo. Soltanto lui ha avuto il coraggio di scovare nuovi percorsi di scrittura nel momento di massima popolarità. Poteva fare come tutti gli altri, ossia non discostarsi dalle formule del sicuro successo. Negli anni Settanta e Ottanta Battisti è stato per i musicisti italiani innovativo quanto i Beatles nei Sessanta. Ha influenzato tutti. C’era chi sfotteva cantautori come Umberto Balsamo accusati di imitare spudoratamente le sequenze armoniche di Battisti. Il maestro Vince Tempera mi ha detto che Balsamo era il più onesto: si faceva scoprire. In verità tutti attendevano l’uscita del nuovo disco di Lucio per imparare e ricalcare qualcosa di insolito. Addirittura Tony Santagata, cantautore tra folk e cabaret che era vicino di appartamento nell’abitazione romana di Battisti, confessò che appena gli sentiva imbracciare la chitarra attaccava a ventosa l’orecchio al muro per afferrare qualche idea singolare.

E non deve sembrare blasfemo l’accostamento con i Beatles. Kicked Around No More di Paul McCartney è del 1993: sembra di riascoltare Amarsi un po’, pubblicata da Lucio 16 anni prima. E i suoi nuovi percorsi convinsero gli artisti più raffinati. Ricordo che David Bowie nel 1997 dichiarò di ritenere Battisti illuminato almeno quanto Lou Reed nella creazione dei propri lavori. Alla faccia degli esegeti della pronuncia inglese stentata.»

Mogol e Battisti si separarono perché il primo non voleva più accettare la ripartizione delle quote tra compositore e paroliere stabilita da norme e consuetudini che privilegiano l’autore della musica: Mogol pretendeva la metà.
«Penso avesse ragione Mogol. Quei testi su quelle musiche rappresentano alchimia perfetta. Il successo straordinario di Nel blu, dipinto di blu lo attribuisco a pari merito a Domenico Modugno e a Franco Migliacci. In America, come nel resto del mondo, si canta dal 1958 il ritornello in italiano: Vo-la-re, oh-oh e non Let’s fly, ya-ya. Non cambierei la norma della ripartizione dei profitti, ma ammetterei delle eccezioni: quelle di Mogol e di Migliacci sicuramente. Pure se l’elenco potrebbe estendersi ampiamente: l’Italia ha prestato alle canzoni dei poeti formidabili, da Libero Bovio e Bixio Cherubini a Giorgio Calabrese e Franco Califano

Le copertine dei 6 album realizzati da Battisti senza Mogol: “E già” con la moglie e cinque con Pasquale Panella

Poeta è anche Pasquale Panella, il paroliere degli ultimi cinque album di Battisti. Inserisce anche lui tra le eccezioni?
«No. Panella è un estraneo. Esula dai confronti, è un prodigio allo stato brado. Che Battisti fosse un genio lo si capisce anche da questa scelta. Il lavoro con Mogol è di un’efficacia monumentale. L’album E già con le parole della moglie segna una transizione di valore considerevole; gli ultimi cinque sono quanto di più raffinato, pregiato, artisticamente esplosivo sia stato confezionato finora nella discografia italiana. Battisti ha lavorato con criteri sovversivi; Panella è sovversivo di suo, però è paroliere per contingenza. Gli capitano altrettanti capolavori quando scrive di cinema o quando recita, quando canta e quando gli chiedi d’inventare il titolo per un programma di memorie televisive meditate e ti risponde Techetechete’. Il suono delle canzoni concepito da Panella e Battisti ha affascinato un target particolare, per esempio tutti coloro che nella letteratura francese preferiscono Morte a credito a Le inchieste del commissario Maigret, entrambi gioielli, ma diversi. Così quell’impasto di parole e musica ha stimolato cover di artisti eleganti: Ron, Alice, Morgan, EquiVoci, Max Pezzali con Stylophonic o jazzisti come Tiziana Ghiglioni, Sergio Cossu, Paolo Fresu

Eppure a inizio marzo nel celebrare gli 80 anni dalla nascita di Battisti molti hanno dimenticato di citare le canzoni scritte con Velezia, pseudonimo della moglie Grazia, e con Panella.
«Vero. La stragrande maggioranza di quanto è stato scritto, detto e mostrato in tv ha confinato Battisti nella sola prima fase artistica, soprattutto a causa della soggezione dei narratori nei confronti di Mogol, che di conseguenza è apparso di dilagante ubiquità. Così sono stati sostanzialmente censurati 12 anni di attività. Come se scrivendo di Pablo Picasso ci si fermasse a Guernica o di Federico Fellini senza andare oltre Amarcord

9 COMMENTI

    • Pienamente d’accordo.
      Complimenti al giornalista e a Michele Bovi.
      Per quanto riguarda Battisti penso che la produzione con. Mogol sia cioccolato al latte, quella con Panella cioccolato fondente; intervallata dalla produzione Velezia
      ovvero cioccolato bianco.
      Tutte e tre sempre e comunque cioccolato, cioè il gusto migliore per eccellenza.

  1. Interessante, molto interessante.
    BATTISTI è oltre Mogol anzi niente Mogol.
    Il brano Hegel è stupendo, musica e parole.

  2. Finalmente qln riconosce il valore assoluto, internazionale, degli album “bianchi” fatti con Panella. Superiori a tutto il precedente (sia pure notevole) e da tenere come un tesoro della musica del mondo moderno

  3. Molto interessante, Battisti e’ sempre stato anche per me il più’ grande artista italiano. Mi fa piacere sapere dell’opinione che aveva di lui quel genio di Bowie.

  4. Ciò che avete scritto è molto interessante poiché si è allargata una visione ottica a 360 gradi e va detto che artisti come il Grande Lucio ed altri Cantautori nonché narratori di brani risalenti ad un lasso di tempo remoto – conditi altresì da parolieri di eccellenza unici, uno su tutti Mogol – trovano spazio in qualsivoglia contesto e in archi temporali anche attuali. Queste sono delle icone che andrebbero clonate, artisti storici con qualità musicali eccellenti. Oggi si improvvisano tutti cantanti ma è una rarità incappare in un genio della musica, come i vecchi cantautori o in gruppi musicali sia italiani che internazionali che possano lasciare traccia dei propri brani nel tempo.

  5. Michele Bovi : un uomo di grande intelligenza e competenza
    Lucio Battisti : gli album scritti con Panella sono , al contempo, l’ evoluzione naturale di una creatività geniale ed uno sforzo immenso per afferrare ed affermare ” l’ idea ” hegeliana ( da cui , appunto, l il nome dell’ album).

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