Rolling Stones: “Hackney Diamonds” è la chiusura del cerchio magico

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A mezzanotte ecco comparire su Spotify il nuovo album dei Rolling Stones. Per pochi dischi ormai si crea un’attesa come quella che Jagger e soci hanno voluto per il loro Hackney Diamonds, ultimo album di studio, “di inediti” come ormai si usa dire, arrivato a 18 anni di distanza dal precedente A Bigger Bang, con l’eccezione del disco di cover Blues and Lonesome.

In tempi di musica liquida che si consuma casualmente come un rumore di fondo fidandosi delle playlist semiautomatiche che rimandano solo il già noto e ciò che gli somiglia, la buona domanda è chi aveva davvero bisogno di un nuovo disco dei Rolling Stones. E la risposta di Jagger e Richards sembra essere proprio: «Noi».
«Noi» sta per questo gruppetto di ottantenni per nulla stanchi di vivere suonando, e in fondo vale anche per chi ama ascoltare e suonare musica entrando, come disse Lady Gaga, in una specie di portale per gli anni Settanta, quando i dischi si facevano montando gli strumenti in sala, accendendo gli amplificatori e cominciando a suonare insieme finché il risultato non è buono.

La chiusura di un cerchio ampio sessant’anni

Hackney Diamonds aggiunge poco a quanto gli Stones hanno già fatto, eppure chiude perfettamente un cerchio durato sessant’anni. Non a caso l’ultimo brano è quel Rolling Stone Blues di Muddy Waters da cui tutto cominciò, nel 1962, quando Brian Jones mise insieme cinque ragazzi che frequentavano il locale di Alexis Korner a Londra e scelse il nome da questo brano del maestro blues di Chicago. Il titolo originale era Rollin’ Stones, ma qui Jagger lo cambia (come fecero a suo tempo con il nome) perché sia più evidente il riferimento personale al ragazzo a cui alla nascita fu pronosticato che sarebbe diventato un rolling stone.

I nuovi amici, e gli amici di sempre

Rolling Stones, le pietre rotolanti, sono i vagabondi che viaggiavano clandestinamente sui treni merci americani spostandosi da un posto all’altro. È un’espressione gergale che fa da contraltare agli hobos, che invece erano stanziali e vivevano nelle stazioni.
I diamanti rotti sono anche gli amici perduti, come Charlie Watts che è scomparso da poco o Bill Wyman che se ne andò tanto tempo fa ma che a 86 anni, e sempre in attività, ha accettato di tornare per una canzone a ricomporre la sezione ritmica delle origini, utilizzando per Live by the Sword la traccia ritmica già registrata tempo fa da Watts.

Ma altri ospiti compaiono nel disco, quasi senza pensarci su troppo. Elton John e Stevie Wonder al pianoforte, Lady Gaga chiamata dallo studio vicino e lasciata appoggiata al piano a improvvisare con la sua voce, e Paul McCartney che ha messo un imprevedibile basso distorto dal fuzz in Bite My Head Off che è un tuffo nel punk o in quello che Stones e Beatles avrebbero potuto fare insieme all’epoca dei Sex Pistols.

L’album si fa ascoltare, e soprattutto sembra immediatamente suonabile in tutte le sue parti. Un tempo le giovani rock band di tutto il mondo ci si sarebbero tuffate su per portarne i brani in palco il giorno dopo, come fece Hendrix con Sgt. Pepper dei Beatles.

Hackney Diamonds è in qualche modo una summa dei diversi percorsi sperimentati nei decenni dagli Stones.

I BRANI UNO PER UNO

Rolling Stones - hackney diamonds

Angry

Uno splendido esempio di brano costruito su uno dei famosi riff ad accordatura aperta di Keith, ma con il tiro moderno, spudorato e ballabile che piace a Jagger.

Get Close

Costruita sull’incrocio continuo di due chitarre, descrive una passeggiata notturna alla ricerca di qualcuno o qualcuna in cui perdersi, con il quasi impercettibile piano di Elton John a mescolarsi col resto.

Depending on You

Una classica lenta rock ballad sulla dipendenza d’amore, ma un amore ormai perso, con una steel guitar che entra a regalare un velo malinconico.

Byte My Head Off

Un brano punk e incazzato, dominato da un riff distorto che Paul McCartney sostiene col basso: “Perché vuoi staccarmi via la testa con un morso, perché sei così stronzo? Perché ti comporti come un idiota? Ho un mondo di cui preoccuparmi. Se fossi un cane mi scalceresti via…”

Whole Wide World

Quasi sullo stesso binario, un riff ossessivo di chitarra, una storia autobiografica in cui Jagger racconta di “strade piene di vetri rotti e ovunque guardi ci sono ricordi del mio passato, l’appartamentino di Fulham, il puzzo di sesso e benzina, senza sapere mai davvero dove avrei dormito il giorno dopo…”

Dreamy Skies

Apre un varco sulle country ballads acustiche alla Wild Horses, e una pausa nei brani elettrici e incazzosi. Fra l’altro il brano racconta proprio della necessità di prendersi una pausa da tutto. Il suono rilassato delle acustiche, l’armonica di Jagger, ne fanno un break perfetto.

Mess It Up 

Un classico brano Stones, non a caso con Charlie Watts a picchiare sui tamburi. Le chitarre in stereo giocano su uno dei classici riff, il ritornello invece è decisamente pop e la batteria uniforme ed essenziale di Watts evita la caduta nel kitsch.

Live by the Sword

Regala la ritmica storica Watts/Wyman con in aggiunta il piano di Elton John per una specie di boogie filante ed elettrico che ha come morale che se ti scegli una vita fallo senza mezze misure e comunque se vivi per la spada per la spada morirai. È uno di quei brani che dal vivo potrebbero far durare anche un quarto d’ora.

Driving Too Hard

Un’intro alla Tumbling Dice per un altro brano dal sapore vagamente country rock che racconta di un rapporto spintosi davvero molto oltre: “Guarda cos’hai fatto di me, hai svuotato i miei occhi, hai frullato la mia sanità mentale e tutto quello che hai dovuto fare è stato piangere”

Tell Me Straight

Lo spazio che Keith Richards si ritaglia per sé prima della fine. Una lenta rock song in cui si lamenta di un rapporto a due: “Abbiamo qualcosa o niente del tutto? Dimmelo chiaro” il futuro è tutto nel passato? Dimmelo chiaro. Suonami una canzone, la vita si muove troppo in fretta, dimmelo solo chiaramente”. Ogni riferimento al compagno di viaggio storico potrebbe non essere casuale.

Sweet Sounds of Heaven

Si muove lenta e sinuosa un po’ alla You Can’t Always Get What You Want, con uno spirito decisamente soul che trova pronti all’appello Stevie Wonder e una Lady Gaga che improvvisa sullo sfondo. E il brano aggiunge appunto una improvvisazione finale molto bluesy con Gaga che cerca le note più alte e un feeling vecchia maniera. Sarebbe un’ottima conclusione se non mancasse ancora qualcosa. E qualcosa arriva a chiudere forse sessant’anni di storia straordinaria.

Rolling Stone Blues

L’omaggio a Muddy Waters, il bluesman di Chicago su cui i Rolling hanno costruito la loro fortuna e si sono fatti le ossa agli inizi, studiandolo attraverso Alexis Korner e i dischi d’importazione. «I Rolling Stones hanno rubato la mia musica ma mi hanno regalato un nome», disse di loro Muddy, grato per il Blues Revival che gli inglesi importarono nell’America della segregazione rompendo gli schemi.
L’album si chiude qui, come un ciclo, tornando al punto di partenza. Probabilmente darà vita a un nuovo tour. Finché c’è fiato.

Qualcuno ha già detto e scritto che Hackney Diamonds non è probabilmente un album “storico”, non regala classici senza tempo (ma qualcuno rimarrà), non soddisferà i nostalgici di un’epoca d’oro, ma è sicuramente un lavoro di grande classe e qualità che arriva da un gruppo di anziani rocker che si divertono ancora e sanno giocare con la musica e ciò che la tecnica oggi consente. È un disco che si ascolta e riascolta volentieri, apprezzandone le sfumature, che rappresenta un modo diverso dai tempi attuali di fare musica, niente suoni sintetici, effetti speciali, superproduzioni: voci strumenti e calli sulle dita. E l’ottimo lavoro di valorizzazione del produttore Andrew Watt (coautore in tre brani) e dell’ingegnere del suono italiano Marco Sonzini, abituati alle hit di questo millennio. Da parte di un gruppo di ottantenni belli tosti…
Cosa chiedere di più?

Giò Alajmo
(c) 2023

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