“Goya. La ribellione della ragione”, la mostra a Milano fino al 3 marzo

La grande mostra di Milano propone i diversi aspetti della genialità del maestro spagnolo, che segnò il passaggio dall’arte classica a quella moderna.

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Il manicomio. Dalla serie “Cuadros de fiestas y costumbres”, 1808-12 - Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Ci sono varie chiavi per “leggere” l’opera di uno dei massimi geni del XVIII secolo, il pittore spagnolo Francisco José de Goya y Lucientes. La prima è quella che la racchiude tra le due affermazioni, lontane tra loro una ventina d’anni: «dato che lavoro per il pubblico, devo continuare a divertirlo» e «la pittura [è] l’arte che più di ogni altra avvicina al divino». Ovvero il percorso che l’ha visto passare dal compiacere i committenti alla libertà espressiva, ottenuta grazie al crescente gradimento della nobiltà fino all’impegno a corte. In pratica anche nell’arte per essere liberi bisogna prima raggiungere la ricchezza e l’approvazione.

La seconda lettura ne segue la progressiva negazione del valore espressivo del colore. Un tragitto dal “Goya bianco”, luminoso e vivo degli inizi, alle Pinturas Negras, dipinte solo per sé sui muri della sua casa, cupe, disturbanti e sprofondate nel buio. Tragitto che già lo aveva portato alle incisioni, a cominciare dai celeberrimi Los Caprichos, dove le tematiche vengono prima di ogni altra esigenza di piacevolezza.

Scelta accelerata dal sopraggiungere della sordità, a causa probabilmente di un avvelenamento da piombo. Dopo aver vissuto il trionfo dell’illuminismo e la delusione della Rivoluzione Francese, il pittore vede gli ideali vacillare e perde la prestanza che ne faceva un ottimo gaudente (famosa la sua relazione con la potente e chiacchierata duchessa d’Alba), perciò si chiude sempre più dentro un mondo popolato dai “mostri”, le iniquità diffuse e i mali del vivere individuati dai suoi amici intellettuali e generati dal “sonno della ragione”.

Ancora si può decodificare la linea di significato del maestro aragonese – nacque nel 1746 in un villaggio non lontano da Saragozza, Fuendetodos, che oggi ha 169 abitanti e un piccolo museo nella sua casa natale – come “la scoperta dell’inferno”. Quello autentico, quello che viviamo ogni giorno, quello che ci circonda e ci invade dentro. Lo diceva André Malraux, lo scrittore che fu anche ministro della cultura in Francia, nel suo Saturne. Essai sur Goya, paragonandolo per contrappasso a Hieronymus Bosch.

Se il maestro rinascimentale fiammingo aveva portato con l’immaginazione gli uomini a vedere i mondi dentro cui si agiteranno quando saranno dannati, Goya rappresenta con realismo uomini autentici che sembrano frutto di fantasia perché, come tutti noi, si portano “l’inferno dentro”.

Autoritratto al cavalletto, 1785 – Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Queste letture insieme lo definiscono come il punto di svolta della pittura mondiale, il cardine di congiunzione tra l’arte antica e quella moderna, che non poteva non vivere – morirà nel 1828 a Bordeaux, in Francia – durante un periodo di grandi sovvertimenti e rivoluzioni, un tempo saturo di ideologie e di trasformazioni sociali.

Queste letture sono quelle seguite dalla mostra “Goya. La ribellione della ragione”, aperta al Palazzo Reale di Milano fino al prossimo 3 marzo, che vantava già oltre 30mila prenotazioni online prima ancora dell’apertura. Settanta opere, tra quadri, bozzetti e incisioni, affiancate spesso dalle bellissime, originali matrici in rame appena restaurate in cui si vede l’effettivo lavoro del maestro. Nessuno dei capolavori più conosciuti, perché non c’è museo o istituzione che si privi volentieri delle sue opere, ma un itinerario solido, chiarificatore, anche emotivo, cui contribuisce un allestimento consapevole, ricco di gigantografie, che ci porta dai fondali panna iniziali a quelli quasi neri delle ultime sale.

Tra i due autoritratti – tre con quello compiaciuto e autoreferenziale dell’affermato direttore di pittura della Real Academia de San Fernando che si avvia a diventare Primo Pittore di Corte posto in apertura de Los Caprichos – del 1785 e del 1815 i visitatori incontrano le varie facce di Goya, seguendone il lato umano, artistico, psicologico, anche politico, senza badare troppo alla cronologia.

Se “il protagonista del suo tempo” è un accademico neppure così eccelso, come mostrano i ritratti del re Carlos IV e dell’intrigante consorte María Luisa de Parma, di certo il sapido e attento pittore delle serie che raccontano come “il popolo si diverte” – i partecipati Juegos de niños, le crude scene di corrida e le feste – riesce a essere autentico, innovativo, profondo. La sua è una testimonianza dal di dentro, che scruta quello che i suoi personaggi compiono, il loro “gesto”, con amore sorridente quando sono bambini che giocano, con velata critica quando animali vengono fatti soffrire (sceglie di far morire quasi sempre i cavalli più dei tori) e con adesione scherzosa se si godono, come Las jóvenes del 1810, il suo stesso modo di vivere, aperto a contatti con persone di ogni estrazione sociale.

Seguono le sale dedicate alle commissioni, con il San Francisco de Borja y el moribundo impenitente dove appaiono nel 1788 i suoi primi mostri/demoni, e ai ritratti che lo resero famosissimo, dopo che la sua fama era divampata quando i primi cartoni per l’arazzeria reale, che Raphael Mengs lo aveva chiamato a dipingere nel 1774, mostrarono una penetrazione umana e scatti cromatici inediti per l’imperante armonia arcadica di quel genere di opere. Sono sia i nobili, a volte intere famiglie, che gli amici illuministi, politici, scrittori, scienziati, a farsi ritrarre, con Goya che rinuncia a qualsiasi altra presenza che non siano i modelli stessi, posti su fondi cupi che esaltano la materia pittorica.

Tu che non puoi. Dalla serie “Caprichos”, 42, 1797-99 – Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Arrivato alla piena maturità, l’aragonese inizia a “vigilare e denunciare”, a scagliarsi contro la guerra senza se e senza ma, ad allargare la libertà critica, grazie a un’immaginazione senza precedenti. L’artista ha superato la fiducia illuministica nella ragione, il suo sostanziale ottimismo è diventato disincanto e ironia, dolore e indignazione. In particolare le sue incisioni (e non solo, come ad esempio le tele della serie Cuadros de fiestas y costumbres, di cui tre sono in mostra), realizzate raggiunta la cinquantina, sono il perno di quella visione antropocentrica che costituisce la fondamentale innovazione dell’arte moderna.

Il corpus grafico di Goya, uno tra i più unitari e qualitativamente eccezionali di sempre, rappresenta ingiustizie, vizi, atrocità, inquietudini e fantasmi delle diverse classi sociali, clero compreso, con immagini forti di aspro realismo, non di rado angoscianti. Del tutto lontane dalle rappresentazioni coeve da essere ancora oggi attualissime. In particolare lo sono le immagini dei Desastres de la guerra, dettate dalla sollevazione indipendentista del 1808 contro l’invasione napoleonica, eppure capaci di mostrare gli aspetti più tenebrosi e abietti della guerra, senza appoggiare nessuno dei contendenti, ma solo ergendo a protagonista la vera vittima di ogni conflitto, il popolo anonimo.

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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