Una semplice e grande canzone. Una canzone grande e semplice. Semplice perché grande, grande perché semplice. Grande perché è in definitiva davvero una canzone dei Beatles, malgrado le condizioni speciali in cui si è sviluppata e, ancora, grande perché probabilmente davvero l’ultima, l’ultima canzone di The Beatles.

  Certo si potrebbe facilmente obiettare che scrivere e partorire una canzone da parte di un insieme che noi riconosciamo come “complesso musicale”, sia un’operazione davvero condivisa, volontariamente e operativamente. Tuttavia, il gruppo in questione è tale per cui non sfugge a nessuno che anche durante la piena attività, le canzoni fossero di volta in volta il frutto di proposte individuali, da parte di Paul e da parte di John, oppure composte a quattro mani, sfruttando l’uno gli spunti dell’altro, per passare al vaglio di tutte le personalità che componevano il “combo” più noto del globo. Dunque da sempre le canzoni del gruppo erano all’origine idee di canzoni formulate da  Paul e idee di canzoni di John. E sappiamo anche che i frangenti in cui sono stati generati alcuni dei brani Pop più conosciuti e tra i più influenti della recente storia della musica, sono un capitolo a parte, umano, psicologico e relazionale, del quale si è fatta e si fa tuttora analisi e  si prendono posizioni differenti, ora a favore di questo, ora di quel membro della formazione.

Il grande tema che riguarda l’attività del complesso di Liverpool è in verità il tema stesso del Novecento: l’ascesa a primato assoluto della canzone popolare rispetto a quella colta, e il suo assurgere, almeno nel loro e in ben pochi altri casi, a fenomeno antropologico-culturale che si pone come evento artistico di indiscusso valore.

In definitiva, la domanda con la quale gli stessi elementi in fondo dovevano convivere è la seguente: cosa mai fosse The Beatles.

Cercare di comprendere che cosa sia stato The Beatles ritengo sia stata e sia cosa assai complessa, persino per gli stessi protagonisti. Una questione forse non ancora risolta ai nostri giorni.

  La cosa ha a che vedere con la storia recente, dal momento che i tempi in cui essi hanno operato sono in sostanza i medesimi che noi stessi viviamo, tempi unici quanto a complessità.

Anche ciò che è racchiuso nella vicenda The Beatles, antropologicamente parlando, è  tentativo di chiudere in un solo termine un insieme di elementi svariati e sfuggenti, in quanto gli osservatori di tali elementi sono (così come noi lo siamo della storia) i protagonisti stessi di tale storia.

  Secondo Michel Foucault, filosofo che ha acceso luci determinanti sul nostro tempo, l’uomo nasce davvero con la scoperta dell’analisi di sé in senso lato, dunque assai di recente, con la nascita di quello sguardo analitico che si sforza di osservare lo stesso osservatore dal quale parte lo sguardo. L’occhio che si guarda nell’atto di guardare. Un processo di riflessione, ma anche implicitamente una contraddizione che reca con sé il nocciolo del fallimento dell’impresa stessa che si sta compiendo.

  Ora, “Now and Then”, tutti o quasi lo sanno data rapidità e pervasività di parte dell’informazione, sarebbe il nuovo – l’incredibilmente nuovo – brano dei Beatles. Una specie di avvenimento singolare resosi possibile ora. Soltanto ora.

Vediamo.

È nato, ci viene detto, “dalla costola”, e dalla sapiente manipolazione tecnologica di un provino che un Lennon casalingo, coniugato, avvolto in una apparentemente ordinaria ma in verità disperata ricerca di sé, realizzò tra i tanti in casa sua a metà degli anni Settanta. Un Lennon assorto in un’indagine umana, psichica di sé (ricorrendo anche alla psicanalisi più radicale), ma anche appunto in un’indagine antropologica, in quanto al tempo stesso analisi di sé e del proprio tempo. Ed è una ricerca fatta nel suo caso in spontaneità, da autodidatta, da uomo che si riconosce come straordinariamente esemplare. Figlio del popolo che si ritrova membro del gruppo divenuto “più celebre di Gesù Cristo”, ragazzo disadattato che si riscopre filosofo naif e politico pacifista nello spirito, Lennon assume tutte le sfaccettature e le complesse contraddizioni del suo tempo, e persino le proiezioni che quel “suo” tempo avrà sulla nostra epoca.

   In un simile e incredibile combinarsi di eventi ed elementi, abbiamo così un Lennon giovane uomo, che mentre cerca di darsi foggia di persona normale, padre di famiglia, dedito al figlio Sean, bimbo come tutti i bimbi, e ad una donna però anch’essa fuori dall’ordinario (ragione per cui la coppia non potrà mai dirsi “normale”), in questo frangente ibrido, il musicista-artista inquieto che sopravvive in lui come brace sotto la cenere, si dedica alla registrazione-lampo di alcune idee di canzoni, realizzate con pianoforte e voce e affidate all’approssimativa tecnologia di un registratore a musicassette. Quello che c’era. Evindentemente senza le mire di rappresentare altro che una serie di appunti, di schizzi utili ad essere poi riesaminati, elaborati, per portarne forse in seguito alcuni alla dimensione di canzone finita.

Questa l’immagine di fondo.

In questo realizzare canzoni superlativamente semplici e allo stesso tempo potenti, si gioca la dura competizione del Novecento tra certa canzone popolare e il resto del mondo.

Fuori dalle finestre della agiata ma tendenzialmente normale abitazione dei Lennon, che possiamo immaginare con alberello natalizio, tende candide ai vetri, ampio salotto chiaro, divani e cuscini, fuori da questo idilliaco nido-tipo, effigie ideale e un po’ di posa della società borghese di metà del decennio Settanta, in quel preciso prototipo nel quale si fonderebbe il modello-base della società stessa, ovvero la famiglia, – fuori da tale paradiso di normalità si preparano invece manovre mastodontiche, superiori ad ogni testa e fisicamente poste sopra a tutte le teste, siano esse specialissime teste, finemente forgiate da determinate pieghe storiche come lo sono quelle dei nostri sposini con prole in crescita, sia quelle dei più ordinari uomini comuni, gli uomini e le donne non belli, non speciali, non eletti, che tutte le mattine si debbono recare sul luogo di lavoro a prestare la propria porzione di vita per un’occupazione che nella maggioranza dei casi non li riguarda se non per via dell’esito mensile che ne deriverà, ovvero il maledetto agognato salario.

   Fuori da queste vite e più in alto, laddove la nostra telecamera si sposterà in volo ideale, si preparano eventi immensamente decisivi per tutti, dunque pure destinati a noi tutti, fino al nostro presente. Guerra fredda, spartizione di territori e conseguenti interventi su specifiche comunità, pianificazioni di controllo sistematico e progressivo delle sorti collettive e così via, in una complessa e articolata serie di eventi decisi al famoso “tavolino” da parte di chi comanda, e sulla cui presunta esistenza abbiamo fatto in tempo a dubitare  e poi archiviare come favola contemporanea. Bufala, si direbbe per essere ligi al pensare ufficiale.

Ma torniamo nell’alcova familiare e di intima generazione musicale.

   Lennon da un dato momento in avanti scrive ispirato da un senso delle cose insieme soggettivo e collettivo. Basti ricordare “Working Class Hero”, per dirne una, oppure la massima ispirazione politico-sociale inscritta in “God”, forse il vero dimenticato manifesto della canzone popolare assurta al rango di riflessione filosofica. Le sue canzoni sono immancabilmente esercizi in piccolo, scritte in minuta, di riflessioni generali, come fossero gli appunti scritti a matita a margine di un testo ponderoso e secolare di matematica superiore, sul quale si possa tentare irriverentemente di apporre una labile ipotesi di soluzione biunivoca: soluzione per me e insieme soluzione per il mondo stesso, quel certo mondo che smette di essere concetto astratto per doversi intendere come l’insieme reale di tutte le variopinte famiglie dalle quali si genera il genere umano di ora e di domani. Now and Then.

  E quale altro potrebbe essere il codice in cui tale messaggio cifrato inserito alla disperata nella bottiglia se non la canzone popolare; e quale altra forma se non i quattro accordi armonici, siano essi alla chitarra o, semplicemente, o persino stentatamente riportati al pianoforte quale elementare strumento di accompagnamento?

Sono forme appunto elementari della musica del Novecento, potenti poiché divenute universalmente comprensibili, poiché tali forme possono essere decifrate da un villico francese, da un dottorone di microchirurgia a Los Angeles, da un minatore belga, da un beduino del deserto del Sahara, un indiano in meditazione al tempio o un adolescente immerso nelle lorde acque del Gange, da un magro africano tormentato agli occhi dalle mosche, o da un professore di armonia all’accademia musicale di Roma. Ovunque, da chiunque, sempre e comunque, ora e domani.

 In questa potenzialità totale e totalizzante dei quattro accordi accostati secondo un principio di ispirazione al tempo stesso elementare e massimamente composito, si gioca tutta la partita del Novecento umano, un confronto con il senso stesso del proprio futuro nel momento in cui, vivente, tu proietti te stesso nel divenire più profondo e lontano, laddove non riesci a vedere, ma puoi solamente immaginare che cosa sarà.

In qualche modo sarà, in una qualche misura, diversamente uguale ad oggi. Tempo e spazio si allacciano allora magicamente nei quattro accordi ragionati di una canzone che sia vero specchio di uomo, non congettura, non onanistica prova di abilità, non disegno forzatamente accademico, non spocchia, non ambizione di superiorità, non competizione, non posa, né maniera, non sfida e non implicito seme di divisione, e nemmeno più progetto di mercato; bensì solo unione di intenzioni. Umanità. Quella loro, quattro uomini, dei quali due attempati sopravvissuti nel lusso intellettuale di vedere la parabola dell’idea giovanile divenire Storia, e i due nel frattempo scomparsi, John e George, i cui destini così differenti, così diseguali fanno di tutti loro un coro umano, tanto umano e per una volta trascendente la Storia.

 Lennon suona cantando al pianoforte, il suo canto viene finalmente isolato, scomposto, riassunto in una organizzazione armonica, sottolineato da una batteria che più semplice ed efficace non si può e sorretta da un basso che culla le fondamentali pulsazioni tonali; carezzato da due chitarre folk che ne ricalcano il tracciato ritmico-armonico, e si aggiunge a ciò una variazione in cui lo stesso incedere semplice dell’idea di base possa riflettersi, per tornare quasi subito ad essa.

Lennon ha così scritto e cantato in un altro tempo, non immaginando ciò che sarebbe stato di quella musicassetta, MCarty ha arrangiato, Starr ha sostenuto ritmicamente e come sempre moralmente, e Harrison ha fatto in tempo a ricamarvi anni fa parti di chitarra e suggerire l’invenzione di un tema che ne avvolgesse e facesse svolare l’idea stessa come un lenzuolo candido al vento estivo.

Ed ecco. Signore e Signori, la magia della semplicità al potere, platonicamente sporta verso quell’empireo cui tutti aspiriamo segretamente senza aver mai il coraggio di ammetterlo, la magia che permette di volare con facilità, di staccare corpo e mente dal suolo solo desiderandolo per andare in alto, tornare sù, sù, di più: dove siamo tutti una sola cosa, e la siamo ora e la saremo anche dopo.

gianCarlo onoratoMusicista, scrittore e pittore fuori dagli schemi, ex leader di Underground Life. Ha pubblicato i dischi: Il velluto interiore (1996), io sono l’angelo (1998), falene (2004), sangue bianco (2010, Premio Giacosa), ExLive (2014) con Cristiano Godano, quantum (2017), “quantum Edizione Extra” (2018), ha curato la co-direzione artistica del Tributo a Luigi Tenco come fiori in mare Vol. I (2001) e Vol. II, in “Sulle labbra di un altro” (2011), ed i libri: Filosofia dell’Aria (1988), L’Officina dei Gemiti (1992), L'ubbidiente giovinezza (1999), Il più dolce delitto (2007), “ex-semi di musica vivifica” (2013), La formazione dello scrittore” (2015). Ideatore del Seminario del Verbo Musicato, ha centinaia di concerti alle spalle e un disco, un tour e un nuovo romanzo nel prossimo futuro. giancarloonorato.it

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