I nostri jazzisti sono da tempo apprezzati in tutto il mondo. Suonano nei grandi e nei piccoli festival, vengono invitati come guest e come turnisti di pregio, i loro dischi ricevono recensioni entusiaste. Non solo, molti musicisti sono disponibili con piacere e con dedizione ad apparire nei gruppi di cui i nostri dettano la linea come titolari. In questo offrendo un contributo “differente” per culture ed esperienze, come dimostrano i quattro riusciti album che vi andiamo a presentare.
Paolo Peruzzi
Paolo Peruzzi
Songs From The Past And The Holy Spirit (autoprodotto)
Voto: 8
Ha registrato a due passi da Boston, dove ha frequentato il Berklee College, la più prestigiosa scuola di jazz del mondo, questo suo album di debutto. Il vibrafonista e percussionista veronese ha chiamato ad accompagnarlo cinque “compagni di classe”, cinque amici del Berklee, tutti giovani promesse della musica afroamericana statunitense. Le otto track firmate da Paolo Peruzzi, attivo in varie orchestre e nel trio Gogoducks (insieme a Francesca Remigi, anche lei una “bostoniana”, e Luca Zennaro), sono dei piccoli saggi per una laurea dalla votazione summa cum laude.
Già il titolo Canti dal passato e dello Spirito Santo è estremamente impegnativo e il riferimento estetico lo è quasi altrettanto, dato che i sei musicisti si muovono in un territorio post-coltraniano, ma partendo dalle ultime stagioni del genio che ci ha lasciato quasi mezzo secolo fa, subito dopo aver imboccato una strada verso la spiritualità, dettata dalla ricerca della consapevolezza interiore. L’incontro tra ballate avvolgenti e momenti impetuosi (non sempre risolti), la lucida analisi del tempo presente retta dalla nostalgia di un altrove inattingibile, la poesia di una passionalità che si fa vincolo e patimento, lacerano il percorso dell’albo, che galleggia fra cuore e viscere, fra distacco intellettuale e rincorsa verso l’elevazione.
Jazz autentico e moderno, cui i due sassofonisti Fall Raye ed Ethan Klotz, così come Ebba Dankel a pianoforte e Fender Rhodes, danno impulsi zigzaganti di una linearità astratta, che Nick Isherwood al basso e Nitzan Birnbaum alla batteria hanno il compito di riportare alle tematiche ortodosse del contemporary, dalle quali spesso si allontana anche la poetica del leader, le cui traiettorie contenute e poetiche (anche al sintetizzatore in Thosemuffled Earlybrights), particolari e felpate, cercano un amalgama continuo.
Giorgio Alessani
Giorgio Alessani
The Mess We Leave Behind (Alfa Music/Egea)
Voto: 8
Quarto album da titolare per il nostro cantante pop-jazz (dimenticate per lui la definizione coroner) adottato dai francesi. Realizzato sulla scia e con le stesse tematiche e le stesse idee espositive del precedente Kissed By The Mist del 2020, che seguiva un doloroso dramma personale, (più o meno la medesima line up, ma senza l’orchestra, e canzoni con i testi firmati ancora dal poeta/paroliere newyorchese Cedric McClester), questo lavoro è nato durante la pandemia. E «vuole trasmettere una visione del domani positiva e resiliente», della quale soprattutto oggi abbiamo un po’ tutti bisogno.
Giorgio Alessani, che è nato a Roma ma vive a Parigi, possiede una voce appena arrochita, calda e vellutata, ottima pronuncia inglese (sette dei nove brani sono nella lingua di Albione), maturità espressiva e intensità interpretativa. Il suo pop-jazz elegante, lontano dall’ondata swing, è pervaso, per chiara scelta stilistica, da un’atmosfera intima ed elegante di rara bellezza, che ricorda per vari aspetti alcune registrazioni di Tony Bennett degli anni 70 e certe tendenze del jazz West Coast dello stesso periodo, ma anche il lavoro di Mia Martini con Maurizio Giammarco.
I suoi accompagnatori sono jazzisti di alto livello, a cominciare dal mito francese della batteria jazz André “Dédé” Ceccarelli e continuare con il figlio d’arte del bandoneon Juanjo Mosalini (il grande papà Juan José ha lasciato un erede al suo stesso strumento che si sta avvicinando a calpestarne le tracce e che qui è protagonista dell’unica track in francese L’heure de notre histoire), con il sensibile pianista Cédric Hanriet, fiati qua e là, e la voce della giovane Anne Sila (lanciata da “The Voice France” e con due album per una major all’attivo), che duetta con Alessani nell’unico brano in italiano Fino a che vivrò.
Giovanni Guidi
Giovanni Guidi
A New Day (ECM/Ducale)
Voto: 8/9
A New Day per a new Giovanni Guidi. Il pianista perugino ritorna nell’alveo della prestigiosa etichetta tedesca ECM con questo cd, che segna l’inizio di una svolta nel suo percorso artistico. Il pianista di Foligno, che debuttò da leader – dopo l’esperienza nel quartetto di Enrico Rava e nella Cosmic Band di Gianluca Petrella – nel 2006 con Tomorrow Never Knows pubblicato dapprima solo in Giappone, evolve decisamente il sound del suo trio internazionale. Merito innanzitutto, parola dello stesso Guidi, del produttore Manfred Eicher, boss di casa ECM, e del sassofonista americano James Brandon Lewis.
Il primo «dopo un’ora di registrazioni, con brani che avevo preparato e che suonavano come i miei precedenti cd, mi ha detto “bene, adesso buttiamo tutto questo e tu suoni quello che veramente vuoi suonare”». Il secondo è stato il primo fuoco acceso da quella miccia, con il suo suono pastoso e carico di pathos, ma insieme sempre un po’ inatteso, sempre “malizioso”.
Con il frastagliato batterista brasiliano João Lobo, già con il Nostro dal suo secondo cd in quartetto The House Behind This One (con Dan Kinzelman, sassofonista da cui Lewis non è lontano), e il sostanzioso contrabbassista Thomas Morgan, Guidi mette in mostra un accentuato senso lirico e la capacità di controllare le dinamiche pieno/vuoto, riuscendo a “piegare” alle proprie esigenze estetiche l’aleatorietà colemaniana e un ricco caleidoscopio di umori.
Per certi versi l’approfondimento per il precedente omaggio a Gato Barbieri, il riuscito Ojos De Gato, è stato, insieme al dolore per la perdita del padre, un trampolino per dare al pianista uno stimolo nuovo nell’affrontare i suoi downtempo evocativi e pieni di un’energia sommessa, i suoi brani in bilico tra l’effetto di straniamento brechtiano verfremdung e lo struggimento dei suoi tremoli e arpeggiati, le improvvisazioni collettive di Only Sometimes e le riprese oblique e riarmonizzate dello standard infinito My Funny Valentine e del traditional natalizio catalano Cantos Del Ocells, proposto già da Joan Baez e José Carreras.
Carmen Falato
Carmen Falato
Influencia Mambada (Alfa Music/Egea)
Voto: 8
La sassofonista e cantante (e pittrice) romana, attiva da oltre un quarto di secolo, ha frequentato i territori della bossanova con i Riomania e i Seixta Feira, quelli del funk con i Dat Scat, quelli del jazz orchestrale con numerose formazioni e ha suonato in concerto con Eddie Henderson, George Garzone e anche il Banco del Mutuo Soccorso. A suo nome ha inciso, esattamente dieci anni fa, Cayo Hueso, album registrato a Cuba con musicisti dell’isola, in non semplice equilibrio tra hard bop e sonorità caraibiche, tra latin jazz e afro-cuban, tra temi di Miles Davis e Djavan, di Donald Byrd e originali.
Carmen Falato, molto soddisfatta da quell’esperienza, si recò a Cuba quattro anni dopo e incise una seconda sessione di brani, mantenendo anche le stesse modalità di ripresa: una sorta di jam session iniziata a mezzanotte e chiusa alla luce dell’alba. E con quasi tutti gli stessi musicisti di ottima caratura: il percussionista Yaroldy Abreu, già con Chuco Valdés, il pianista David Alfaro degli Afro-Cuban All Stars, il batterista Oliver Valdés, partner di Rodney Barreto, il trombonista Juan Carlos Marin, che ha suonato anche nell’albo Vivir En La Habana di Blondie, il trombettista Julito Padrón, già a fianco di Tito Puente, e il bassista Carlos Rios, unica new entry.
Influencia Mambada è proprio il risultato di quella sessione felice, che segue ed evolve le trame della precedente, in un susseguirsi senza soluzione di continuità di jazz ortodosso e modale (le due riprese della Contemplation di McCoy Tyner, una con la protagonista al tenore, l’altra al prediletto soprano) e di afro-cuban jazz (la Cancion di Chico O’Farrill), di sonorità brasileire (la “classica” Upa Neguinho di Edu Lobo) e di brani originali pieni di sentimento (Sua-Rez), di joie de vivre (Alfaro e Romina, scherzosa fin dal titolo) e di ritmi esplosivi (Rumba, schematica e fulminante). Il tutto quasi riassunto negli oltre 15 minuti del medley iniziale che porta lo stesso titolo del cd, dove Falato combina idee sue, la fusion di Larry Young, il jazz cubano di Chuco Valdés e l’hard bop progressivo di Freddie Hubbard.