Usare il basso elettrico nel jazz non è mai usuale. Meno flessibile e intenso del grande strumento acustico, il contrabbasso, ha iniziato la sua avventura nella musica afroamericana negli ultimi anni Sessanta del secolo scorso, quando l’elettrificazione di tutti gli strumenti diventò un passo necessario per il rapporto che si stava instaurando con il rock grazie a Sua Maestà Miles Davis. Eppure l’amore con la platea dei jazzofili più legati all’ortodossia non è mai divampato. Pertanto chi lo utilizza lo fa “a suo rischio e pericolo” e con la consapevolezza di dover offrire un qualcosa in più per farsi apprezzare. Edoardo Nordio e Alex Carreri ci riescono.

Edoardo Nordio

Edoardo Nordio
Last One (Alfa Music/Egea)
Voto: 8

Non c’è dubbio Edoardo Nordio è un tipo coraggioso. Non solo ha pubblicato un primo album di smooth jazz nel 2018, Fusion Steps, ma oggi persevera nell’idea e fa le cose ancora più in grande, chiamando a registrare questo cd altri nove musicisti. Il coraggio lo si deve proprio alla scelta del genere, che, pur rifacendosi ad artisti come Weather Report, Crusaders, Return To Forever, tanto per citare nel mazzo, non ha mai avuto molti estimatori in Italia. E soprattutto perché la critica militante non l’ha mai amato, bollandolo di faciloneria e di piacioneria e continuando a esaltare le incomprensibili elucubrazioni del free jazz tipiche dei sixties, di pochi anni precedenti il jazz-rock davisiano, progenitore della fusion e dello smooth.
Il bassista di Busto Arsizio, rigorosamente allo strumento elettrico come vuole il genere, si è trasferito a Roma da anni, alternando le collaborazioni musicali alla carriera di doppiatore cinematografico. Questo Last One è la prosecuzione e lo sviluppo del precedente lavoro in quintetto e presenta nove brani originali – sette firmati da Nordio e dal tastierista Giovanni Luisi, autore dei due restanti – e la cover di Reverend Green, scritta da un altro big del genere, Jeff Lorber, e posta quasi sigillo in chiusura.
Anche se i dieci non si slanciano nelle pirotecniche evoluzioni strumentali tipiche degli ensemble fusion più numerosi (eccezione la fulmicotonica Quicklock), mostrano di possedere un totale controllo della tavolozza timbrica, di sviluppare una perfetta sintonia strumentale tra fiati, chitarre e ritmica, di evitare certi meccanicismi tipici del genere e soprattutto di sviluppare linee melodiche da un lato e assolo non invasivi dall’altro molto piacevoli e convincenti. Tra i brani segnaliamo anche la sinuosa Joe’s Jaws, la paradigmatica Take Home con la sei corde elettrica dell’ospite Umberto Fiorentino e la garbata Carillon, mentre tra gli strumentisti ricordiamo almeno il sassofonista Gianni Vancini, il batterista Cristiano Micalizzi e i chitarristi Max Rosati e Alberto Lombardi.

Alex Carreri

Alex Carreri
A Time And A Place (Alfa Music/Egea)
Voto: 8

Grande specialista del basso elettrico, il musicista calabrese con base a Milano è un richiesto sessionman – dai jazzisti Fabrizio Bosso, Javier Girotto, Scott Hamilton, Bebo Ferra, ai pop artist Enrico Ruggeri, Simona Bencini, Gianni Togni e persino Ronn Moss, il Ridge della soap opera Beautiful – e soprattutto un apprezzato didatta. A distanza di 12 anni dal precedente Don’t Worry ‘Bout A Thing e 18 dal precedente Chemical Blend, torna a incidere a suo nome un album di contemporary jazz che evidenzia una tendenza multiculturale e un approccio che, pur non ancorato “dentro” un’unica estetica stilistica, non lo avvia nel cul de sac della frammentarietà.
In A Time And A Place, Carreri, che compone tutti i brani, opera soprattutto in trio, con l’efficace sostegno del talentuoso pianista e tastierista Marco Bianchi e del poliforme batterista Maxx Furlan (con l’aggiunta qua e là del percussionista Dario Tanghetti). Con loro tre ospiti eccellenti: il chitarrista Roberto Cecchetto, propulsivo nel dialogo con Bianchi nella post-fusion di Picasso Museum, la squisiliziosa cantante indiana Varijashree Venugopal del gruppo Chakrafonics (se vi capita ascoltateli), che vocalizza nel transcontinentale São Paulo To Bangalore, che possiede una leggerezza world-jazz particolare, e soprattutto del grande trombettista Randy Brecker, che arricchisce due parti della November Suite con un appeal suadente e pastoso, lirico e rotondo, e la lirica Nuvole con un flicorno incantato.
Felpato ed elastico il basso del leader, che non disdegna quello a 5 corde, riesce a offrire un sostegno dai sapori funk e i chiaroscuri stranianti e una direzione chiara e moderna, che segue intenzioni di volta in volta cristalline (la billevansiana Manhattan) oppure cariche di pathos (la bonus track in chiusura A Day In Gaza) oppure ancora sentimentali e malinconiche (un’evanescente Home da brividi sottopelle).

Raffaello Carabini
Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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