Venezia 81. The Harvest

In un luogo poco connotabile si prepara una trasformazione epocale

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The Harvest
di Athīna Rachīl Tsaggarī

Il romanzo omonimo di Jim Crace da cui è stato ricavato The Harvest (in Concorso) dice che siamo in un villaggio inglese all’indomani dell’Enclosure Act (partito già nel 14mo secolo) ovvero la recinzione dei terreni comuni e il passaggio da una agricoltura spesso povera all’allevamento del bestiame: “pecore, pecore pecore” è prima il grido quasi gioioso di un padrone troppo gentile che scontenta tutti: all’Harvest, al raccolto, tre estranei penetrati nella valle vengono maltrattati, messi alla gogna e uno muore mangiato da un maiale. L’equilibrio fragilissimo cede e subentra il vero padrone del villaggio che ha in mente un piano preciso: sta facendo mappare il territorio da uno specialista: ma attenzione, la mappa sembra più primitiva di quelle medioevali, i costumi degli agricoltori variano tra toghe di memoria romana alle bombette, passando per strani accostamenti e sovrapposizioni a cui non mancano maschere da riti del solstizio che fanno subito pensare male. Insomma, una confusione voluta che cresce con la tensione. Il personaggio cardine è una specie di assistente benevolo ma confuso che si aggira come un Gesù dell’iconografia più kitsch. La regista, attenti, è greca e anche sceneggiatrice produttrice di film di Yorgos Lanthimos (Kinetta, Dotooth, Alps)

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