Franco D’Andrea: «Il jazz mantiene giovani»

Ha 83 anni il grande pianista trentino, ma è lontanissimo dal dimostrarli. Anzi il suo nuovo album ci propone tutta la sua intelligenza nell’affrontare un repertorio molto ampio.

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©Fondazione Musica Per Roma /foto Musacchio, Ianniello, Pasqualini

Si intitola Something Bluesy And More il nuovo, più o meno il 120esimo a nome del pianista Franco D’Andrea. Il grande musicista meranese ha oggi 83 anni e nella sua lunghissima carriera ha attraversato un po’ tutti i territori del jazz, da quello più sperimentale e vicino al free jazz fino a quello a maggiore impatto con il pubblico (il gruppo Perigeo, che proponeva una fusion elegante e sofisticata negli anni 70, è stato l’ensemble jazz più famoso di sempre in Italia).
Questo lavoro segna il suo ritorno alla formula del trio, con l’accompagnamento di un autentico “maestro” della batteria come Roberto Gatto e di un talento emergente del contrabbasso come Gabriele Evangelista. Ed è quasi un ripasso elegante e acuto della storia del jazz, infatti ci propone un ventaglio enorme, che va dalla prima canzone jazz mai incisa, la celeberrima St. Louis Blues, per arrivare a un suo brano di oggi, il sontuoso e divertito blues Exploration, passando da standard senza tempo come Caravan di Duke Ellington e A Love Supreme di John Coltrane. È jazz di altissimo livello, “astratto” e spezzettato, eppure altrettanto lirico e concreto. Da ascoltare.
Lei ama suonare in ensemble strumentali non usuali, non di rado in trii privi della sezione ritmica. Questo ritorno al “classico” trio, piano-contrabbasso-batteria, è un ritorno alle origini, un cerchio che si chiude?
«Direi di no. Il mio primo trio, il Modern Art Trio, non c’entra, era più sperimentale e d’avanguardia. Questa è un’operazione più tradizionale. Ho messo in contatto le mie ricerche intervallistiche con l’usuale suonare su giri di accordi tipici del jazz, ad esempio quello blues.»
Ha appena compiuto 83 anni…
«Non posso negarlo. E devo dire che comincio a sentirli. Prima non era così, adesso mi dico che 83 è un numero mica da ridere.»
Sono passati settant’anni dai suoi esordi…
«Sì, ero un ragazzino e suonavo la tromba, perché la prima cosa che ho ascoltato a 11 anni è stato un disco di Louis Armstrong. Volevo fare come ogni ragazzo: suonare lo strumento del personaggio che ama. Dopo ho suonato anche il clarinetto, il sax soprano e perfino il contrabbasso.»
Finora a inciso quasi 200 dischi…
«A nome mio dovrebbero essere 120 o poco più Poi ne ho incisi tantissimi come sideman, a nome di altri. Ce ne sono alcuni che non ho neppure, ma so di aver fatto.»
Tra i numerosi musicisti internazionali con i quali ha collaborato chi ricorda con maggior piacere?
«Ricordo un po’ tutti. Ho suonato ad esempio delle cose con Steve Lacy, con Johnny Griffin, giganti di diversa estrazione. Ho registrato con il grande trombonista Frank Rosolino, più tradizionale, e suonato con il sassofonista sperimentatore Dave Douglas, ma con lui non ho registrato nulla. Ho registrato un bel disco in duo con Dewey Redman e poi ricordo con piacere Tony Scott. Con lui ho registrato un paio di LP mica da ridere, dedicati alla sua amata Billie Holiday.
Tony salvò me e tutto il gruppo in una situazione dove eravamo veramente un po’ nei guai. Dovevamo fare una serata con due mostri sacri, uno era Tony, l’altro era Art Farmer. Art arrivò con una partitura micidiale da leggere così all’impronta. La situazione era veramente complicata quando arrivò Tony che disse: «Non preoccupatevi stiamo per suonare dei brani che conoscete, sapete come farli e nel caso guardate me e vi dico al volo cosa fare.» Ci faceva cenni per suonare piano oppure in crescendo, creava delle forme all’istante. Era veramente fantastico questo e ricordo che, dopo il problema di dover leggere musica che era bellissima ma estremamente complessa, il che ci frenava dal punto di vista creativo, con lui abbiamo avuto una specie di rinascita e ci siamo sentiti più liberi. Eravamo io, il contrabbassista Giovanni Tommaso e il batterista francese Daniel Humair

©Fondazione Musica Per Roma /foto Musacchio, Ianniello, Pasqualini

Negli ultimi cinquanta, sessant’anni, durante i quali lei è stato uno dei protagonisti, il nostro jazz che passi avanti oppure indietro ha fatto?
«Penso molto semplicemente questo. Nelle epoche che io ho attraversato sono entrato in contatto con musicisti che non avevano nessun tipo di didattica alle spalle. Da un certo punto in avanti invece è apparsa la didattica jazz a indirizzare i nuovi musicisti. Non avere queste indicazioni ci aveva resi più originali, perché andavamo a cercare nuove strade a orecchio, senza libri da consultare, senza dischi da ascoltare. Per certi aspetti quindi non potevamo andare a replicare un fraseggio, certi accordi, certe sonorità di questo o quel musicista, perché era difficile trovare molti dischi all’epoca del vinile, e addirittura a quella del 78 giri. La situazione era troppo complessa, anche perché la qualità tecnica dei dischi non era eccelsa, a volte non c’era nemmeno lo stereo.
Adesso, dopo il cd, siamo arrivati al punto che possiamo addirittura rallentare o accelerare una melodia e avere lo stesso suono. Quando devo affrontare un fraseggio molto intricato con il pianoforte, io rallento l’esecuzione per riuscire a venirne a capo. Una volta facevamo anche degli sbagli nelle trascrizioni, ma erano fecondi, perché quando non capivamo bene come una cosa funzionava ci mettevamo del nostro, quindi eravamo costretti a essere un po’ più originali rispetto a quello che si è oggi.
Oggi c’è una didattica molto estesa, per cui i musicisti, dal punto di vista tecnico e di conoscenza musicale, hanno più facilità nell’entrare nel fraseggio del tale o del tal altro. Questo porta che facilmente potrebbe esserci talvolta un’imitazione troppo evidente di certi fraseggi di un musicista di riferimento. Ad esempio Michael Brecker è sicuramente molto gettonato da chi impara oggi il sax tenore. Alla fine i musicisti di oggi hanno il problema di riuscire a trovare qualcosa di originale da dire, però sanno suonare in qualunque stile e con qualunque difficoltà. A volte riescono a fare qualcosa di molto brillante e molto nuovo, ma sono più in difficoltà nell’essere originali. Non è così semplice, perché molte volte fanno le cose perfettamente, ma se si va a vedere l’originale spesso siamo lì.»
Come didatta, qual è il trucco, il modus operandi che suggerisce ai suoi allievi?
«Io generalmente insegno a chi è già oltre la media, a chi è già bravo. Quello che faccio è spiegare loro tutte le mie esplorazioni per filo e per segno. La musica è un territorio dove si è fatto tantissimo, sotto l’aspetto sia armonico che melodico che ritmico. Il punto però è che conta molto la storia che tu racconti, il tipo di storia. E come metti insieme tutti questi portati e indicazioni. Quindi non c’è ragione nel nascondere qualcosa ai propri allievi. Loro sanno in tempo reale su cosa sto lavorando.»
La musica, come del resto tutte le arti, è legata a ciò che succede nella società in cui è immersa. In questo periodo cosi difficile, con la pandemia seguita dalle guerre ai confini e la tecnologia così invadente da sostituire l’uomo sempre più spesso, cosa possiamo attenderci da una musica come il jazz?
«Secondo me il jazz ha tutte le carte in regola per essere anche la musica di oggi, dopo esser stata la musica di ieri e dell’altro ieri, per l’equilibrio e la creatività che possiede. Una creatività ad esempio impossibile a immaginare nell’AI.»
Lei è considerato il decano del jazz italiano. Come ci si sente in questo ruolo?
«Ci si sente un po’ anziani. Niente di particolare. Semplicemente dentro uno è sempre giovane, mentre per quel che riguarda il fisico bisogna accontentarsi di quel che si ha. Aiutano a rimanere giovani molto il jazz e l’essere nato e vissuto in montagna.»

Raffaello Carabini
Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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