Crescono in maniera esponenziale i cinque “difensori del jazz” rispetto al già soddisfacente debutto. A due anni da quello Scheming che li aveva posti sotto la lente di ingrandimento dei cultori attenti del suono afroamericano post hard bop più aperto e libero dagli schemi old time e insieme capace di essere immediatamente godibile, ecco la seconda uscita di George Cooper e dei suoi pard.
Il pianista degli Haggis Horns, altro supergruppo funk jazz per la cui etichetta incidono anche i Jazz Defenders, e della big band hip-hop Abstract Orchestra, nonché già al fianco di “personaggini” come Hans Zimmer, Nigel Kennedy, Slum Village e U2, firma tutti e dieci le track di questo ottimo King Phoenix . E i suoi compagni di viaggio – gli stessi Nick Dover al sax tenore, Nick Malcolm alla tromba, Ian Mathews alla batteria e Will Harris al basso, più alcuni ospiti – lo assecondano con la classe di formidabili sessionman quali sono, già notati a fianco di big come Andy Sheppard e Pee Wee Ellis, Massive Attack e Nostalgia 77, tanto per citare.
Il dichiarato amore del debut cd per il soul jazz à la Blue Note, la classica etichetta dal caratteristico sound dettato da immortali come Art Blakey, Horace Silver, Wayne Shorter e via dicendo, quello che ancora gronda in maniera succosa e moderna in Twilight e From The Ashes, con andamento e assolo che rimandano ai maestri appena citati, si apre su orizzonti di raggio stellare e di una vivacità libera da vincoli. L’apertura Wagger Jaunt e la seguente Munch segnano subito una nuova direzione, attualissima e viva, verso una proposta che miscela le lezioni di Herbie Hancock e Ramsey Lewis per volare verso riff articolati e contagiosi: soul jazz sì, ma senza scorie, senza sguardi all’indietro, brillante e lucidissimo.

The Oracle spiazza ancora, immergendoci in un clima da colonna sonora, con riferimenti chiari a quelle spaghetti western di maestri italiani come Riz Ortolani o Carlo Rustichelli, grazie agli arrangiamenti del violinista ospite John Pearce. Il seguente Love’s Vestige, dal sapore decisamente bossanova, introduce il primo dei due brani rappati, il lento e accattivante Perfectly Imperfect, vagamente anni 90, con la voce dell’MC/attore londinese Doc Brown. L’altro è il conclusivo Live Slow, che vede il rapper statunitense Herbal T (Chris Jones, il gemello di Wax) condurre un formidabile brano soul-jazz uptempo. Chiudono il percorso la melodica Reprise: Queen Bee, con le esplorazioni attente e curiose di Cooper al piano solo, e il capolavoro Saudade, un’altra colonna sonora dal sapore sudamericano, un po’ alla Lalo Schifrin, con un tema impressionante, due ospiti agli archi (Pearce e la violista Leigh Coleman), il pianoforte sublime, due super ritmi latini e il superbo flauto dell’ospite Atholl Ransome.
Un disco che tutti quelli che pensano al jazz come genere per soli parrucconi intellettualoidi, che si stropicciano la barba e tirano la pipa mentre cercano interpretazioni e analisi che li possano illudere di essere veri soloni della musica, dovrebbero ascoltare. Capirebbero che questi efficacissimi incroci strumentali, questi voli improvvisati senza confini, questi fraseggi dal solido groove, questi sviluppi sorprendenti e coinvolgenti, sono vera, grande musica di oggi. Musica per tutti, dirompente e intrigante.